(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Fu soprattutto per colpa (o per merito) di una conclamata e diffusa antipatia che Matteo Renzi perse il referendum costituzionale del 2016. Per poi perdersi lui stesso con tutto il cerchio tragico. E ciò avvenne non tanto sul merito della riforma che pochi avevano letto e meno che mai capito. Se non farà attenzione lo stesso potrebbe capitare a Giorgia Meloni quando nella primavera del 2026 si voterà il referendum confermativo sulla Giustizia. Poiché i sondaggi oggi favorevoli alla destra potrebbero subire una improvvisa strambata, conseguenza dell’emersione di un diffuso cattivo umore accumulatosi nel sottosuolo elettorale.

In questi tre anni il governo è riuscito nella straordinaria impresa di inimicarsi di tutto e di più. Magistrati. Giornalisti. Corte dei conti (le critiche motivate al Ponte sullo Stretto). Mondo del cinema (tagli e impicci vari). L’universo teatrale con una concezione della cultura che favorisce i sodali e discrimina gli avversari: per esempio, il declassamento della Pergola di Firenze diretta dal poco amico Stefano Massini e l’imposizione sul podio della Fenice di Venezia della bacchetta molto amica Beatrice Venezi. Per non parlare dei sindacati (a parte quelli dichiaratamente gialli). O della Confindustria (lo scontro con il ministro Urso sul mancato sostegno alle imprese). O dei vertici della Banca d’Italia (se osservano che la manovra governativa colpisce i redditi più bassi). O della Ragioneria dello Stato (quando segnala che i conti dell’esecutivo non quadrano). Ma, più in generale, cominciano a pesare nella percezione dell’opinione pubblica, almeno di quella non schierata, le inchieste della libera informazione riguardo ai favoritismi diffusi a pioggia sugli amici della destra. Nonché sugli scandali e scandaletti coltivati nella fungaia del sottogoverno.

I continui attacchi alle coraggiose e molto viste inchieste della squadra di “Report” certo non diffondono simpatia su Palazzo Chigi e dintorni. Per questo motivo le solidarietà espresse dalla destra a Sigfrido Ranucci dopo il grave attentato lasciano come un retrogusto di ipocrisia. Quando Giorgia Meloni dichiara di non essere ricattabile è certamente vero. Ma può la premier mettere la mano sul fuoco a proposito della moltitudine di clientes e miracolati a vario titolo che si addensano famelici nella scia del potere? Del resto, il nervosismo che agita certe poltrone ministeriali è sotto gli occhi (e le orecchie) di tutti. Le urla del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara nel dibattito alla Camera sull’educazione affettiva restano memorabili. Così come certi toni forse troppo comizianti della premier in campagna elettorale in quel di Bari e Napoli non solo poco si addicono alla sua postura istituzionale ma rivelano come uno stato di incertezza. Che Meloni dopo un triennio funestato da guerre e avversità economiche (a cominciare dai dazi del suo amico Trump) senta la fatica del governare è comprensibile. Che come certi suoi predecessori finga di non avvertire il rombo del tuono che si avvicina, lo è di meno.