Per il presidente sudafricano, la giustizia deve essere vissuta, non basta enunciarla: così diventa un antidoto. Il genocidio in Palestina ci ha risvegliato e, forse, può anche salvarci

(di Francesca Albanese – ilfattoquotidiano.it) – Sono profondamente grata di essere nella terra che ci ha donato Nelson Mandela, uno dei più grandi esempi di liberazione della storia moderna. Ringrazio la Fondazione Nelson Mandela per aver tenuto viva non la semplice memoria di un uomo, ma quella del movimento che egli incarnò: la lotta per la giustizia e la dignità umana la cui eredità celebriamo qui oggi.

(…) In questo momento, dal momentaneo cessate il fuoco in una Gaza distrutta alla colonizzazione accelerata della Cisgiordania, la storia bussa prepotentemente alle nostre porte. Dalla prospettiva di questa terra sacra, qui alle radici di Madre Africa – un continente così ricco, così fecondo, nonostante i secoli di violenza inflittagli –, il simbolismo è profondo. Il Sudafrica e la Filastin condividono stretti legami storici, forgiati nelle fiamme della resistenza al dominio coloniale e della spinta per la liberazione. (…)

In quest’epoca di totale ipocrisia diplomatica, codardia politica ed egoismo, le parole di Nelson Mandela risuonano più forti che mai. Nel 1997 disse: “Avendo conquistato la nostra libertà, possiamo cadere nella trappola di lavarci le mani delle difficoltà altrui. (…) Ma non potremmo considerarci umani se lo facessimo”. E questo momento chiama tutti a non lavarsi le mani dell’inferno in cui Israele ha gettato la Filastin. A due anni dall’inizio del genocidio, e nonostante il “cessate il fuoco”, la situazione nel territorio palestinese occupato rimane a dir poco apocalittica. Uso il termine deliberatamente. (…)

Oltre 240.000 morti o feriti; sicuramente molti di più – dicono gli esperti – e i numeri salgono ogni giorno. Interi quartieri spazzati via; famiglie che fanno ritorno tra le rovine solo per trovare i corpi dei propri cari sotto le macerie; edilizia urbana ridotta in polvere; l’acqua pulita scarseggia, il cibo è quasi inesistente, i farmaci e l’elettricità sono gravemente carenti; i prigionieri, torturati e stuprati; lo scempio dei corpi, profanati e lasciati in strada. Le case e i ricordi distrutti; le vite violate nell’intimo; la gente sfollata ripetutamente con la forza su e giù per un territorio reso inabitabile. Senza alcun luogo dove fuggire e niente a cui tornare. (…) Per due anni Israele ha scatenato la guerra su una popolazione civile, mentre i palestinesi non hanno un esercito, non hanno carri armati e forze di sicurezza che possano proteggerli. E se a Gaza aveva la scusa di “voler sradicare Hamas”, ciò non spiega l’escalation della violenza e l’accelerazione della pulizia etnica in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Lì, negli ultimi due anni, i palestinesi hanno vissuto la più grande ondata di pulizia etnica dal 1967. Più di 40 mila persone sono state cacciate dalle loro case (…). Oltre mille morti, più di 200 bambini, diecimila feriti e diecimila detenuti, molti di soli 14 anni, solo per aver partecipato a manifestazioni pacifiche o per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Coloni armati, protetti dai soldati, che imperversano impunemente, bruciando case, distruggendo ulivi, attaccando famiglie che li coltivano da generazioni. (…)

Il genocidio – la distruzione intenzionale di un gruppo “in quanto tale” – è di rado un atto singolo; si dà un pezzo dopo l’altro, un decennio dopo l’altro, un crimine dopo l’altro. Il genocidio in corso in Filastin – visibile nella totalità delle azioni criminali israeliane contro la totalità dei palestinesi nella totalità delle terre interessate dall’annessione – è stato meticolosamente preparato per decenni e reso possibile da un lungo corso di violazioni, impunità e complicità internazionale. Il genocidio, a quanto pare, è il gene dormiente di un regime di apartheid insito nel colonialismo d’insediamento.

Ma il significato originario di “apocalisse”, che viene dal greco, è “scoprire” o “rivelare”. E il momento attuale è, di fondo, altamente rivelatore della verità, della realtà al di là della percezione ordinaria. (…) Ed ecco alcune delle lezioni di questa rivelazione. Innanzitutto, il genocidio in Filastin ha squarciato il velo di Maya, facendo emergere il calcolo geopolitico soggiacente delle principali potenze mondiali. (…) In secondo luogo, il genocidio a Gaza ha fatto della Filastin l’epicentro di una presa di coscienza globale, svelando come le strutture razziali, coloniali, capitalistiche rendano i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio un affare redditizio. (…) Terza lezione, cosa significa questo genocidio per tutti noi. Per ciò che politica, solidarietà, umanità significano per noi. Oggi Gaza la conosciamo. La vediamo. Gli ospedali bombardati, i genitori che raccolgono gli arti dei figli, i giornalisti e i medici fatti a pezzi. Un orrore visibile in tempo reale, sui nostri telefoni, tutto il giorno. Se osiamo guardare. Ciò sta portando a un risveglio sociale e politico, ovunque. Sta plasmando le coscienze, soprattutto delle nuove generazioni.

Non molto tempo fa, la mia sorella sudafricana in armi, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sul diritto alla salute, Tlaleng Mofokeng, mi ha detto che “le ferite inflitte agli innocenti increspano l’anima di ogni nazione”. Pensava ai bambini di Gaza, alla sua esperienza personale di bambina nel Sudafrica dell’apartheid. E vale per ogni giovane anima, al di là di Gaza. Per i più giovani, in questo mondo iperconnesso, questo genocidio non è storia ma memoria in divenire. (…) Forse questo spiega perché, in tutta Europa e non solo, la gente manifesta con striscioni che recitano: “Volevamo salvare la Palestina ma la Palestina sta salvando noi”. (…)

Quando il Sudafrica ha portato il genocidio di Gaza davanti alla Corte internazionale di giustizia – mentre gran parte dell’occidente distoglieva lo sguardo o difendeva e armava l’aggressore – voi sudafricani avete fatto molto più che sporgere denuncia; avete aperto la strada all’azione di altri Paesi. Soprattutto, questo è il primo genocidio a opera del colonialismo d’insediamento a essere portato innanzi a un tribunale internazionale: un fatto di portata storica, che riecheggia non solo in Filastin, ma in ogni terra che abbia visto le proprie popolazioni indigene sopravvivere a stento al genocidio. (…). Avete così dimostrato ancora una volta chi siete, ossia gli eredi della convinzione di Mandela che la giustizia debba essere vissuta, non basta enunciarla. (…)

Cerco di cogliere a pieno la profondità dell’Ubuntu: “Io sono perché tu sei”. La percepisco come una verità forgiata nel dolore e nella resilienza. La risolutezza del popolo palestinese – la sumud – è sorella del vostro Ubuntu. In arabo, sumud significa ‘fermezza’, la resilienza che si fa modo di essere. (…) Sumud, come Ubuntu, non è solo una parola: è il Dna morale della sopravvivenza, una profonda espressione di fede nella nostra interdipendenza condivisa, un potente antidoto all’isolamento e alla paura che la conflittualità dissemina a ogni livello e in ogni sfera. Insieme, definiscono una “etica della convivenza” e, forse, ciò che Nelson Mandela immaginava: un mondo in cui l’empatia diventa il linguaggio della politica – e la politica è radicata nella giustizia – e il riconoscimento della nostra umanità condivisa. (…)

Credo che possiamo gettare le basi non solo per un ordine globale più giusto, ma per un nuovo modo di essere comunità globale. La realizzazione dei principi dell’Ubuntu e della Sumud. Un mondo che abbraccia finalmente l’umanità, la solidarietà, la giustizia e l’uguaglianza per tutti. Da soli siamo fragili come ali di farfalle, ma sbattendole tutti insieme possiamo scatenare una tempesta. Che la giustizia sia la nostra tempesta.

Traduzione di Eva Gilmore