
(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – Meteorologia insegna che l’occhio del ciclone è un’area di calma al centro della tempesta che le infuria attorno. Applicata alla geopolitica, la metafora si adatta a descrivere la condizione dell’Italia. La rivoluzione mondiale scatenata dalla crisi americana, che priva il mondo del suo perno ordinatore, sta destabilizzando il nostro intorno. A est, la guerra di Ucraina sembra fuori controllo. A sud, le guerre di Israele e la proliferazione di conflitti fra milizie e/o pseudo-Stati africani e mediorientali alzano onde migratorie e minacce non solo terroristiche a ridosso delle nostre coste. A ovest, l’impero americano in dismissione illanguidisce il senso della Nato, cui da quasi ottant’anni abbiamo affidato la nostra sicurezza. A nord, oltre la barriera alpina, i paesi dell’Europa settentrionale, specie scandinavi, baltici e polacchi, vivono la somma di queste crisi come anteprima della grande guerra contro la Russia, questione di vita o di morte.
Tutto questo non sembra scuotere la nostra fiducia nello Stellone. Come se un benevolo magnetismo ci risparmiasse dall’adattarci al cambio di stagione, ai sacrifici e alla solidarietà cui ci chiama. Crediamo di poter continuare a essere quel che siamo stati mentre tutto intorno a noi non è più come prima. Recitiamo le nostre professioni di fede nella protezione atlantica, nella coesione europea, nella vocazione alla pace dell’umanità civile e nel primato del diritto internazionale, quasi fossero canoni eterni e non contingenze storiche scadute, in via di scadenza o solo immaginarie. Sicché quando si dibatte sul riarmare, invece di entrare nel merito delle scelte da fare o non fare ci si riprotegge dietro sterili polemiche ideologiche fra presunti pacifisti o bellicisti. Tutto diventa questione morale, di principio. Cioè sterile moralismo. Con esiti pratici nulli.
Ergo, mentre tutti parlano e trattano con tutti, noi, in buona compagnia europea, non parliamo nemmeno con noi stessi. Abbandonarsi alla corrente non è mai consigliabile, ma è certamente suicida quando ci si avvicina alle rapide.
In questa passività si riflettono alcune costanti. Su tutte, l’abitudine alla pace e alla sicurezza incardinata da tre generazioni nella psiche degli italiani. Ma anche novità di qualche momento. In particolare, la crisi della coesione sociale da cui dipende, in ultima istanza, la capacità di una nazione di agire. Per ordinarsi e per partecipare all’ordine del mondo.
Malgrado gli stereotipi correnti, siamo un popolo più omogeneo e coeso rispetto a molti vicini europei e occidentali. La crisi identitaria che scuote la grande nazione francese e accentua le divisioni nelle tribù tedesche teoricamente unificate nel 1990, per tacere delle faglie che scuotono l’America, sono solo tre esempi della tensione antisociale che infragilisce l’Occidente. Robert Guest traccia sull’Economist un ritratto di questa “grande recessione relazionale”, ovvero “ascesa del singolarismo”, trovandovi persino aspetti positivi.
Ma il trionfo della “Generation Single” è per noi italiani campanello di allarme. Se un terzo circa — in crescita — delle famiglie italiane sono “unipersonali”, cioè formate da un singolo (in che senso il singolo sia famiglia andrebbe argomentato al di là dei tic statistici) e se nelle grandi città le persone sole ( e anziane) sono spesso maggioranza, converrebbe domandarsi come la transizione dal familismo amorale all’individualismo asociale incida sulla coesione degli italiani, quindi sulla capacità dell’Italia di contare nel mondo. Nelle crisi, soprattutto se accompagnate da guerre e conflitti di ogni genere, la recessione relazionale indebolisce le legature sociali, dunque la solidarietà nazionale. Specie dove il senso dello Stato non è la cifra della nazione. La famiglia non può sostituire lo Stato, ma l’individualismo nega insieme società e Stato.
Tutto questo si riflette sul sistema politico e sul peso dell’Italia sulla scena internazionale. Sul fronte esterno, la differenza capitale fra questa Repubblica e quella dei partiti consiste nella negazione del riflesso unitario che un tempo spingeva maggioranza e minoranza a non dividersi sulle questioni strategiche essenziali. Oggi la spaccatura verticale, eccitata dal radicalismo non solo verbale della civiltà dei social, è norma di fronte a qualsiasi crisi, dalle migrazioni alle guerre. Riflettere su come arginare l’ascesa del singolarismo per ricucire le ferite che minano la fibra della patria potrebbe contribuire non solo alla convivenza tra italiani ma anche all’iniziativa dell’Italia nel mondo delle potenze revisioniste. Per non esserne revisionati.
Il gattopardo Lucio ha sempre i suoi fuochi d’artificio nella giberna e non vede l’ora in ogni articolo di far risplenderli nel cielo del suo scritto.Frasi d’effetto per dire tutto senza scostarsi dal punto di partenza iniziale,cioè nulla.
Da Torino ha ricevuto l’ok per i bengala e le miccette da sparare in direzione di Donaldo.
"Mi piace"Piace a 2 people
Ha ragione, non ci ho capito granché, forse Lucio Caracciolo oggi volava troppo alto per i miei modesti neuroni
"Mi piace""Mi piace"
👍Per i miei neuroni vola troppo in alto (voli pindarici però)tutte le volte che scrive😉: mi è sembrato più serio ed equilibrato quelle poche volte che l’ho sentito dalla Gruber in podcast.
"Mi piace""Mi piace"
LA GUERRA È UNA FOLLIA DA METTERE AL BANDO – Viviana Vivarelli.
Dopo decine di anni di finte paci, l’Occidente è di nuovo in guerra.
La guerra è subdola, si infila negli interstizi dell’anima delle sue vittime per colpire quando meno se lo aspettano. Non si muore solo sul campo di battaglia. Sono in costante aumento, negli ultimi anni, i militari Usa che si sono tolti la vita e questo numero continua a crescere. Si muore di fame, di sete, di tortura, di movimenti della Borsa, di carestie, di clima, di ettermoti di alluvioni, di politica, di disperazione, di abbandono. Ci vorrebbero guerre meno insensatamente violente e immotivate di quella ucraina o israeliana. Guerra alla miseria, guerra all’ignoranza, guerra all’ingiustizia, guerra alla fame, guerra all’odio. Ma quale altra guerra non è insensata e violenta?
Persino quando ti salvi e torni da una guerra ti aspettano difficoltà nelle relazioni private, problemi legali o finanziari, di lavoro, di reinserimento, psichici, da traumi…
La guerra ti uccide anche quando ti salvi.
Uccide l’umanità che è in te.
Uccide la verità, la giustizia, il senso di umanità.
Nel mondo ci sono 205 Paesi. 59 di questi sono in guerra. E ovunque ci sia guerra c’è dietro l’Impero americano, o direttamente o per interposta persona.
Lo Stato più ricco del pianeta distrugge la gioventù migliore. Semina guerre ovunque nel mondo. Ma non si fa nulla per terminarle. E si continua ovunque ci siano risorse da depredare.
Nessuna delle guerre americane è mai stata migliorativa o liberatoria di alcunché. E dalla seconda guerra mondiale gli USA non ne hanno mai vinta una. Gli Stati uniti le guerre sanno solo iniziarle, e sempre in casa d’altri, non hani mai saputo finirle.
Con la scusa di salvare i diritti umani o di difendere ilmondo dal terrorismo, uccidono ovunque l’uomo e il suo futuro. Le prime vittime delle guerre USA sono i giovani americani, le loro famiglie, il futuro di una Nazione. E questa cosa continuerà finché non si toglierà potere all’America.
Si continua a fare economia attraverso le guerre. Perché l’economia determina tutto e le guerre fanno bene all’economia dei plutocrati, dei finanzieri, dei gestori del petrolio, dei mercanti di armi, i quali se ne sono sempre fregati delle masse.
L’Europa fino a pochi anni fa si vantava di aver prodotto un lungo periodo senza guerre ed era falso, perché ha partecipato a tutte le guerre americane, asservita come una demente sempre agli interessi dei soli Americani e ora, che tre anni di guerra ucraina è proprio l’America che di ha ridotti in miseria e ci ordina con l’acquisto forzato delle sue armi di cadere in una miseria anche maggiore. E i governanti europei hanno ancora la faccia di difendere la guerra di Israele o quella ucraina con giustificazioni che di legittimo non hanno ormai più nulla, mentre si continua a chiamare democrazia la depredazione altrui, chiamando eroi o terroristi quelli che combattono, secondo l’interesse dei gruppi di potere, e spargendo informazioni false e contraddittorie che rendono impossibile valutare i fatti, secondo quanto fa comodo a un colonialismo travestito da liberazione.
E anche in una crisi mondiale come questa, nessun governo ha tagliato le spese militari, ha ritirato i soldati dalle guerre, ha proposto negoziati di pace, piuttosto tutti hanno reso più poveri i propri cittadini, rendendo incerto e inquietante il futuro di tutti.
Troppi sono gli stessi Americani reduci da inutili e devastanti guerre che si suicidano o, incapaci di reinserirsi nella vita civile, diventano barboni di strada. Lo stress e i traumi aumentano rischio emarginazione sociale e suicidio. La guerra ti abitua a un abuso di droghe e a esperienze mostruose, al ritorno sei uno spostato. Un senzatetto su 4 in America è un reduce di guerra, nonostante gli ex militari siano solo l’11% della popolazione totale.
Non è facile ricostruire i dati di queste morti perché ogni governo Usa le ha nascoste, come ha oscurato il ritorno delle bare come una vergogna, ma si calcola che centinaia di veterani si uccidano ogni mese, mentre sempre più persone scappano dall’Ucraina per non dover più combattere.
È il lento olocausto di una Nazione che immola sé stessa alla propria perversa economia fondata sulla guerra. Possibile che la Nazione più predatoria del mondo non riesca mai a passare ad una economia di pace?
L’industria della guerra, impossibile ormai chiamarla “esportazione di democrazia”, non ha mai crisi.
Se l’America è andata male finora, non possiamo sperare miglioramenti dal nuovo corso di Trump. E la vile Europa striscerà dietro il volere di Musk come un cagnolino, come ha già fatto, preventivamente, la Meloni.
I nemici si inventano di volta in volta. La democrazia americana avanza e prospera sulla figura del nemico. E con la guerra ucraina abbiamo l’orrore di una von der Leyen che vuole militarizzare l’UE per attaccare la Russia, perché “finché c’è guerra c’è business” e in questo business la von der Leyem e i suoi biechi soci di rapina, i leader europei, ci sono dentro con tutte le scarpe.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Iniziamo con una sintesi: il soggetto è l’Italia che si trova tra due fuochi.
La sua vicinanza agli USA in crisi da un lato e la mancanza di coesione sociale dall’altro.
Il tutto in un contesto internazionale turbolento ed in rapida mutazione.
Questa situazione, sostiene Caracciolo, non ci scuote; la viviamo come soggetti passivi
In questa passività si riflettono alcune costanti. Su tutte, l’abitudine alla pace e alla sicurezza incardinata da tre generazioni nella psiche degli italiani.
Brutte abitudini effettivamente.
L’insieme di questi due fattori si riflette sul sistema politico (espressione di un popolo) e ci impedisce di agire rendendoci marginali nello scenario internazionale.
Malgrado gli stereotipi correnti, siamo un popolo più omogeneo e coeso rispetto a molti vicini europei e occidentali.
Però questa coesione si è, almeno in parte, persa.
Oggi la spaccatura verticale, eccitata dal radicalismo non solo verbale della civiltà dei social, è norma di fronte a qualsiasi crisi, dalle migrazioni alle guerre.
Ma questa spaccatura è davvero un fenomeno recente? O l’Italia, per ragioni storiche, culturali e territoriali, è sempre stata un Paese diviso, incline al particolarismo e alla frammentazione?
“Riflettere su come arginare l’ascesa del singolarismo per ricucire le ferite che minano la fibra della patria potrebbe contribuire non solo alla convivenza tra italiani ma anche all’iniziativa dell’Italia nel mondo delle potenze revisioniste.“
Prima di riflettere su come arginare l’ascesa del singolarismo, non sarebbe meglio interrogarsi sulle cause che lo hanno prodotto? la crisi della famiglia, l’erosione delle comunità, la sfiducia nelle istituzioni.
Solo comprendendo queste radici potremo davvero ricostruire la coesione di cui l’Italia ha bisogno per non essere, ancora una volta, semplice spettatrice del proprio destino.
Articolo pessimo, non dice nulla e propone male.
"Mi piace""Mi piace"