
(di Gianvito Pipitone – notiziegeopolitiche.net) – Non esiste un dolorometro. E meno male. Se ci fosse, scopriremmo che il dolore non è democratico, né equo, né misurabile. Il lutto autentico è un terremoto che scuote le viscere. Ma qui non ci interessa la scossa interna, intima, viscerale. Ci interessa il rumore che fa fuori. L’effetto esterno. La messa in scena, quasi. L’esposizione del dolore: il modo in cui la morte si manifesta nel teatro pubblico, tra riti, gesti, silenzi e condivisioni. Perché se il dolore è privato, il lutto è spesso obbligatoriamente pubblico.
Viviamo nell’epoca della morte liquida. Ogni giorno, i media ci servono il bollettino: morti in guerra, sul lavoro, in mare, per incidente. I telegiornali sono disseminati di morti senza volto, senza storia. La morte è diventata un dato freddo, un contenuto come un altro, una notizia da lanciare tra una pubblicità e l’altra. E non la si annuncia più nemmeno fingendo dolore. Troppo anche per l’ipocrisia.
Eppure, nonostante la sovraesposizione, la morte — in privato — resta un tabù. La prova? Basta mettersi, anche solo per finta, nei panni di chi ha appena perso qualcuno. Basta immaginarlo per sentire il capogiro. Il lutto è quella cosa lì. Non serve viverlo per sapere che fa male.
Ma dimentichiamo per un momento la faccia intima del dolore. Concentrandoci su quella sociale del lutto. Quella visibile. Quella del rito a favore di camera. Ed è questa che ci interroga. Quella che assume le fattezze anche di chi, pur non essendo costretto a farlo, lo fa con compiacimento. Per sentirsi parte. Per sentirsi vivo.
La storia è piena di funerali pubblici oceanici. Da Stalin a Gandhi, da Lady Diana a Papa Francesco. Eventi che non sono solo cerimonie funebri: sono momenti di catarsi collettiva, di identità nazionale, ma anche di regia, di costruzione narrativa.
Il funerale ufficiale di Charlie Kirk, trasmesso in diretta sulla CNN, ha mostrato con chiarezza cosa accade quando il dolore si trasforma in evento. Sul palco si sono avvicendati i ruoli chiave del governo: Pete Hegseth, Marco Rubio, J.D. Vance, e ovviamente Donald Trump. Presente anche la vedova, Erika Kirk. Il suo discorso commosso, le lacrime condivise in simbiosi con la platea, hanno trasformato il lutto in rito collettivo. In performance.
E infine lui, il tycoon, annunciato da un boato e da fuochi sparati dal basso come l’ingresso di una superstar dell’NBA.
A parte il dolore sincero e composto della moglie, tutto sembrava tranne che un funerale. L’atmosfera ricordava una convention politica: scaletta contingentata, apparato scenico imponente, musica evocativa, cartelli coreografici distribuiti tra i posti. La maggioranza dei partecipanti indossava i colori del partito repubblicano: rosso, cappellini MAGA, bandiere stelle e strisce. Le misure di sicurezza erano da evento presidenziale.
Ma ciò che colpiva non era solo l’apparato. Era il tono. Il lutto non era commemorazione: era affermazione identitaria. Kirk, fondatore di Turning Point USA, è stato celebrato come martire della libertà, voce della verità, moderno discepolo. Il dolore si è fatto racconto. E il racconto, strumento.
Il lutto è esposto. Il dolore, orchestrato. Non più solo catarsi collettiva, ma strategia di comunicazione a fini politici.
La martirizzazione è la forma estrema dell’esposizione del lutto: quando la morte diventa simbolo, pedigree, causa scatenante. Accade spesso in politica. I martiri palestinesi, radicalizzati o uccisi sotto i bombardamenti, ne sono un esempio. Ma non sono gli unici.
La memoria va a George Floyd, il giovane nero ucciso dalla polizia a Minneapolis nel 2020. Diventato icona globale contro il razzismo sistemico. Charlie Kirk e George Floyd rappresentano due poli opposti di una stessa dinamica. Così, con la martirizzazione di Kirk in diretta, celebrato come simbolo della libertà conservatrice, anche la destra identitaria ha finalmente il suo lutto da esibire.
Certo, Floyd e Kirk sono diversi per contesto culturale. Indubitabile. Ma simmetrici nella funzione: entrambi elevati a figure sacrificali, catalizzatori di narrazioni politiche. Il lutto, in entrambi i casi, si è fatto racconto. E il racconto, strumento.
Totò, nella Livella, diceva che la morte rende tutti uguali. Ma solo nel buio della tomba. Nella realtà, ci sono morti che fanno rumore e morti che non fanno neanche eco. Morti che diventano icone e morti che restano statistiche. Morti che si piangono in pubblico e morti che si ignorano in silenzio.
Mi viene da pensare ai lavoratori schiavi nelle miniere africane, ai migranti seppelliti a decine di migliaia nel Mediterraneo, ai morti sul lavoro in Italia e nel mondo, ai bambini di Gaza, a tutti i morti ammazzati senza che avessero colpa. E mi sorge una domanda: chi sono i martiri veri?
La memoria selettiva scinde l’ovvio. E quella condivisa diventa impossibile da ottenere. Mentre il messaggio che passa è chiaro: piangiamo solo i nostri morti, quelli che ci appartengono. I morti degli altri? Quelli che non hanno funerali in diretta, né tweet commemorativi? Sono morti di serie B. Quelli di cui non importa niente a nessuno? Che se li piangano gli altri.
Il lutto esposto è dunque teatro. A volte tragico, a volte retorico. A volte sincero, a volte strumentale. Ma sempre pubblico. Perché il dolore, quando si mostra, non è mai neutro. È sempre racconto. E ogni racconto, si sa, può diventare dispositivo. Su cui innestare una nuova religione.
Non a caso, domenica notte, il nome di Kirk è stato affiancato a quello di un Santo laico. Addirittura a Gesù Cristo.
E allora prepariamoci: anche dalle nostre parti arriveranno nuovi santi da venerare. Perché quelli canonici, ormai, non bastano più. E il dolore, per essere ascoltato, dovrà gridare. O almeno, andare in onda. Meglio se in diretta.
Al mio paese al funerale di un ragazzo (motociclista), morto di incidente stradale hanno sparato i fuochi d’artificio, cori da stadio che chiamavano il suo nome e rombi di motociclette radunate per l’occasione.
Mi chiedo se dovesse morire un soldato che faranno, attacchi simulati, spari in aria, cori tipo “Ufficiale e gentiluomo”?
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Strano che quando è stata uccisa una deputata dem e il marito da parte di un estremista di destra, i MAGA TUTTI ZITTI, giusto??
Questa è una FARSA.
Persino Candace Owens sta dicendo che i repubblicani vorrebbero far passare una legge contro la libertà di opinione, con la scusa dell’HATE, cioé esattamente il contrario di quel che avrebbe voluto C. Kirk.
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So che è moralmente sbagliato, un pensiero di cui vergognarsi ecc.. ma, a nessuno di voi è venuta in mente la frase “uno s-t-r-o-n-z-o” in meno?
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e.c. “uno s-t-r-o-n-z-o in meno”
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L’uso indegno del suo assassinio a fini politici rende ingiustamente antipatica la figura di questo ragazzo che per i più era un perfetto sconosciuto. Anche se le sue posizioni, che ora superficialmente conosciamo, non giustificano in alcun modo che fosse fatto fuori, al contrario di qualcun altro a noi molto più prossimo
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