(di Francescomaria Tedesco – ilfattoquotidiano.it) – Charlie Kirk aveva diritto di dire le sue scempiaggini. Non c’è nessun contrappasso che regga, nessuna ironia della Storia che giustifichi. Nessuna sua dichiarazione (su quanto valga la pena avere qualche morto ammazzato in più se ciò garantisce che il II Emendamento venga rispettato) che possa legittimarne l’assassinio. Le posizioni di Kirk erano aberranti, razziste, omofobe, eversive. Ma erano opinioni. Mobilitavano? Certo. Inneggiavano? Anche. Aizzavano? Di sicuro. Ma erano comunque opinioni, e la catena eziologica delle responsabilità non può spingersi troppo indietro a cercare colpe dirette. Armare la mano dell’assassino (e ciò vale sia per colui che uccide le vittime dei tuoi strali, sia per chi ti ammazza perché non è d’accordo con ciò che dici) richiede un nesso causale che non può ridursi ai comizi vomitevoli di Kirk. Le parole sono pietre, è vero. Ma il nesso tra le parole e le azioni, per quanto le prime ci possano fare orrore forse tanto quanto le seconde, è talvolta troppo flebile per sacrificare la libertà di espressione. Ci sono responsabilità politiche, culturali, etiche, per ciò che si dice e si scrive. Non è poco, ma non giustificano la censura, tanto meno l’eliminazione fisica. Lo ha detto il governatore (Repubblicano) dello Utah: “Sento sempre dire che ‘le parole sono violenza’. Le parole non sono violenza. La violenza è violenza”. E anche se si volesse sostenere che le parole performativamente producono la realtà, e che dunque il confine tra parole e azioni è più labile di quanto si sostenga qui, allora occorre che sia il diritto a prevedere conseguenze per le parole dette e scritte.

Tuttavia è un crinale davvero pericoloso, di cui si incapricciano solo coloro che pensano di non esserne lambiti. Se si inizia a dire che anche le parole attentano, ci sarà qualcuno che troverà un modo per colpire anche chi le usa sentendosi ancora al sicuro (è quello che sta accadendo, è quello che accadrà). Prendiamo l’esempio di quella corte tedesca che quest’estate ha sentenziato che il marxismo è inconciliabile con lo Stato di diritto e che la dittatura del proletariato è antidemocratica. A sinistra qualcuno risponde col solito argomento della differenza tra gli estremismi di sinistra e gli estremismi di destra, “salvando” così il marxismo dall’accusa di essere una dottrina eversiva e pericolosa. Ma è un argomento discutibile: il clima politico-culturale che per decenni ha esentato il marxismo da ogni esame di democraticità (anche grazie al più grande partito comunista d’Occidente, quel PCI che manifestava la propria – per quanto ambigua – doppia fedeltà togliattiana alla Costituzione repubblicana da un lato e all’Urss e al socialismo reale dall’altro) è cambiato. Fino all’aberrazione di sostenere che nazismo e comunismo pari sono. Un’equiparazione che mi fa orrore. Tuttavia, se usiamo questo modo di ragionare del rapporto tra teoria e prassi, di argomenti per colpire una dottrina politica se ne trovano. E finirà malissimo.

Infine, non si può tralasciare l’aspetto più importante di questa faccenda. L’apertura alla libertà di espressione da sinistra verso la destra più becera e pericolosa solleva alcune questioni tra loro connesse. La prima è che il clima di odio e violenza che si respira è generato dalla destra, non dalla sinistra. I numeri negli Stati Uniti dicono che gli assalti violenti a esponenti politici sono nella stragrande maggioranza condotti da sostenitori della destra. Lo stesso si può dire in Europa e in Italia con i numerosi casi di violenza fascista che si sono manifestati in questi ultimi anni. La seconda è che è a destra più che a sinistra (se si eccettua qualche versione fessacchiotta e passivo-aggressiva del wokismo da operetta) che fremono in preda alla fregola censoria. Aspettiamoci, per dire, le volgarità pretestuose che verranno scatenate su Bella ciao. Sono coloro di cui difendiamo la libertà di espressione a volerla negare agli altri (si vedano gli attacchi alla stampa liberal, agli intellettuali, alle università, ecc). È un buon motivo per fare lo stesso? No, ma è un ottimo motivo per tenere gli occhi aperti per non cadere in quello che Popper definiva il paradosso della tolleranza: tollerare gli intolleranti porta alla fine della tolleranza, ma ciò accade quando alle opinioni intolleranti non si può più replicare con gli argomenti razionali, che vengono interdetti dagli intolleranti e sostituiti con l’uso della violenza.