(Stefano Rossi) – Provando ad immedesimarmi con i maturandi di questa mattina, sono andato a leggere le tracce dei temi di maturità usciti questa mattina.

Due mi hanno incuriosito: quello su Pier Paolo Pasolini e quello su “il Gattopardo”.

La struggente poesia di Pasolini termina così:

“… E la mia vita è come la campagna

che gira muta su se stessa,

e la luna gira con lei,

e io con la luna e con la campagna,

giriamo senza parlare,

senza saggezza, senza pace,

e la notte è finita”.

Non si parla solo di solitudine e mutamenti sociali ma di una società che distrugge l’agricoltura e i contadini per favorire le grandi industrie. Noi, allora, non lo potevamo sapere, Pasolini, come al solito, ci arrivò per primo.

Ma si può parlare oggi di agricoltura quando al governo abbiamo un ministro che, per far contenti i produttori di vino, sostiene che si può morire bevendo troppa acqua? Poi disse che, per fortuna, la siccità aveva colpito solo il Sud. Evidentemente, erano presenti i produttori del Nord. E, poi, la castroneria secondo la quale, il diritto Canonico, disciplina il vino perché il primo miracolo di Cristo fu la moltiplicazione del vino.

È chiaro che, con questa politica, l’agricoltura è lasciata al suo triste destino.

Meglio cambiare traccia.

Allora, leggo quello su “il Gattopardo”, romanzo a me caro; poi il memorabile film di Visconti.

Ma ecco la sorpresa.

Un romanzo storico che anticipa l’Unità d’Italia, la crisi di una borghesia non solo siciliana, l’inizio di una nuova borghesia senza regole, il Piemonte che non poteva capire i problemi del Sud, il rigore morale di  Fabrizio Salina che rinuncia allo scranno al Senato e il povero piemontese che non si capacitava del perché. Poi il memorabile discorso sulle nuove iene che si affacciavano in politica, insomma, ce ne sarebbe da scrivere, da commentare, da raffrontare con i giorni nostri.

Stranamente, la traccia, si sofferma sul come e perché, don Calogero (la iena), tenga in disparte la moglie che non ha nemmeno un nome nel romanzo. Una figura ombra che non ha alcuna rilevanza se non quella di essere la moglie di don Calogero.

Certamente era brutta, certamente era ignorante, certamente avrebbe fatto brutta figura se fosse stata presente in casa Salina, quindi, il marito, la tiene segregata in casa.

Mi ricorda la storia di Francesco Cossiga, ma questa è un’altra faccenda.

Ora, si poteva sperare che, il ministero, nello scrivere la traccia su questo romanzo, avesse posto l’attenzione sui femminicidi, sulla condizione della donna, sul maschilismo o patriarcato, invece no, tutta la lunghissima traccia e il nocciolo della questione riguarda cose scontate, di secondo piano con una superficialità vergognosa.

La traccia chiede di spiegare “le differenti modalità attraverso le quali Tomasi di Lampedusa presenta i personaggi protagonisti di questa scena” (ma che razza di domanda è? Ma cos’è un casting?); “Illustra con precisi riferimenti al testo i rispettivi atteggiamenti di Angelica e di don Calogero nei confronti del Principe di Salina”; “In quale punto del brano e con quale accorgimento linguistico l’autore rende evidente che don Calogero sta mentendo sulle reali condizioni della moglie?”.

Un po’ come commentare la Gioconda in base al tipo di vestito che si vede nel quadro.

Ma c’è un particolare che mi ha chiuso la vena e mi consente di alzare i toni della critica.

Nella traccia, il don Calogero, ripeto, colui che il protagonista, Fabrizio Salina, individua tra le nuove iene, spregiudicate e di malaffare, viene scritto con la maiuscola “Don”!

E qui trovo tutta la cultura che si mescola a quella mentalità, tipica, che porta rispetto per il malaffare, soprattutto quando si mescola con una delle tante mafie che impestano questo Paese!

Sono andato a riprendere il romanzo (cinquantesima edizione, 1960) e, da pag. 150 a pag. 153, il “don”, di Calogero, viene scritto a volte con la maiuscola, a volte con la minuscola.

Ma io, quando leggo mafia con la maiuscola, e al singolare, capisco che è innata nella cultura di tanti italiani una soverchiante rassegnazione verso le tante mafie che dominano, governano, impestano come sorci di fogna, questo Paese.

Per fortuna mi sono tenuto alla larga dal leggere la traccia sul povero Borsellino.

Mi avrebbero denunciato!

Per tornare al “don” con la maiuscola, credo sia davanti gli occhi di tutti: una politica succube, immobile, impaurita verso chi domina con le armi e spara, se deve sparare, paga, se deve pagare.

Ancora devo vedere un politico che batte i pugni sul tavolo perché si fa poco contro le tante mafie che imperano.

Ci fanno vedere i pochi cittadini che scendono in piazza per commemorare le vittime delle mafie ma non sapremo mai lo sconforto, la delusione, il rammarico dei tanti pubblici ministeri lasciati soli, senza mezzi a combattere questi orchi sanguinari.

Non sapremo mai dei tanti appartenenti alle polizie giudiziarie che, dopo anni di indagini, vedono  finire i processi con prescrizioni, assoluzioni e poche condanne.

Non sapremo mai perché uno come Nicola Gratteri è finito a Napoli invece che a capo della Direzione Nazionale Antimafia, come allora Cordova.

Non sapremo mai perché, molti partiti, preferiscono tenersi i tanti imprenditori e i vari “don calogero” locali in odore di mafia, che portano voti, anziché starne lontani.

——————

Insomma, non sapremo mai perché, al ministero, c’è qualcuno che preferisce scriverlo con la maiuscola il “don” che contraddistingue una delle figure più tipiche del malaffare, della politica corrotta, del connubio mafia-politica, presente nella Letteratura italiana.

Di certo si tratta di rispetto, di ossequio, di piaggeria celata, nascosta, involontaria che dice tutto.