(di Massimo Gramellini – corriere.it) – Il professore di liceo che ha augurato la morte alla figlia di Giorgia Meloni lamenta di essere vittima di un linciaggio. Non intendo contribuirvi anch’io, ma le sue parole sono emblematiche della dissociazione a cui può ridurci il picchiettare per ore sulla tastiera di un computer o di un telefonino. «Ho sbagliato, però non era il caso di crocefiggermi», afferma colui che, anche prima dell’episodio che lo ha consegnato al tribunale dei social, vi interveniva abitualmente in veste di giudice per crocefiggere questo o quello. Stiamo parlando di una persona colta, o comunque acculturata, perfettamente in grado di cogliere i fondamenti del vivere civile, riassumibili nella massima evangelica «non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te». Invece l’uomo che si è spinto sull’orlo del suicidio perché non riusciva a reggere l’impatto con l’onda della cattiveria, è lo stesso che ci monta sopra ogni volta che può. Nessun lanciatore di odio pensa mai agli effetti che avrà la sua bomba quando cadrà sul bersaglio. Nessuno di loro si chiede se il destinatario della minaccia o del dileggio è un individuo ipersensibile, se attraversa un momento di particolare fragilità, se ha problemi di salute, di denaro o di famiglia, come nel caso del professore-odiatore, estenuato a suo dire dalla convivenza con la madre anziana.
Quel sordo malessere che ci spinge a bullizzare un altro sui social è spesso condiviso dal bullizzato. Se solo ce ne rendessimo conto, forse diventeremmo umani