(Alessio Mannino – lafionda.org) – Mentre a Gaza, secondo l’Ufficio Affari Umanitari dell’Onu, “il 100% della popolazione soffre la fame”, qui in Italia debutta un programma televisivo dove i concorrenti si azzuffano per addentare un tozzo di pane. Money road – Ogni tentazione ha un prezzo, condotto da Fabio Caressa, ricorda un po’ il meccanismo sadomasochista dell’Isola dei Famosi (quest’anno impreziosita da Mario Adinolfi, martire a favor di telecamera): entrambi non sono che il rovescio dell’abbuffata di trigliceridi che da anni ha preso stabile possesso dei palinsesti. Scorrendoli, oltre al casalingo La prova del cuoco o all’isterico Masterchef Italia, abbiamo: Cucine da incubo4 RistorantiAlessandro Borghese-Celebrity chefL’Italia a morsiL’alfabeto di GiorgioneGiorgione: insieme è più buonoRitratto di ChefFuocoI panini li fa MaxMax sfida alle calorieVito con i suoiGiusina in cucina, Spie al ristorante, La cucina delle monache, Ricette del convento, Scarpetta d’Italia, In cucina con Luca Pappagallo, Cucina al mercato con Ruben, Cucina al mare con Ruben, Casa Mastrota e ce ne dimentichiamo senz’altro qualcuno. Quanto al passato prossimo, come dimenticare I menù di Benedetta, Il boss delle torte, Camionisti in trattoria, Cuochi e fiamm  e infine, ultimo ma non ultimo, il capostipite americano, Gordon Ramsay, in tutte le sue innumerevoli declinazioni? Già così verrebbe spontaneo correre al cesso a rigettare. Ma la particolarità dello show di Caressa consiste nell’essere tutto giocato sull’ansia di decurtare il meno possibile il monte premi finale (300 mila euro) rinunciando a comodità e necessità basiche, come un letto o un pasto normale. Si dimagrisce e ci si fa il fegato marcio volontariamente. Per soldi, visibilità e per un’altra, più oscura, ragione.

Sbotterà il lettore: perché discorrere di tali facezie, con i palestinesi sterminati e sotto carestia, un’Ucraina ancora e sempre in guerra, il militarismo europeo, i referendum alle porte, e mettiamoci pure il liberticida ddl Sicurezza, approvato nel silenzio generale? Per un motivo molto semplice. E molto inquietante. Associata alla paranoia per la salute e la forma fisica, l’omnipervasiva invadenza del cosiddetto food è una metafora perfetta del nostro modello di vita bulimico che secerne – perfino chimicamente – una sazietà tutta illusoria, che a sua volta produce stordimento mentale e, conseguentemente, indifferenza morale e inazione politica. Il nostro immaginario collettivo viene rimpinzato con un ammasso di grassi, zuccheri e proteine in funzione sedativa. Più guardo mangiare, e più mi viene voglia di mangiare. E come per la pornografia, in cui si può guardare ma non toccare, il piacere è puramente masturbatorio e può generare un’abitudine compensativa. È il miraggio dell’Abbondanza, da sempre sogno saturnino dell’indigente, costretto a faticare per mettere insieme il pranzo con la cena. Non è una coincidenza, quindi, che piatti e pietanze cucinate da semi-divinizzati chef o più modesti cuochi fai-da-te i quali, magari coinvolgendo amabili marmocchi, fanno il verso ai primi, abbiano colonizzato tv e social proprio negli ultimi vent’anni. Perché questo è il periodo storico che ha visto un impoverimento oggettivo, statistico e indecentemente reale di un’Italia del finto “benessere” con gli stipendi al palo, divorati da un’inflazione e un caro-vita che impone diete, al solito, forzate sì, ma esclusivamente per i meno abbienti.

Il che non significa affatto che i proletarizzati di questo primo scorcio di secolo siano più snelli e asciutti. Al contrario: come dimostrano le denunce di Oms e ministero della Salute sul dilagare di obesità e sovrappeso, e come chiunque vada al supermercato sa fin troppo bene, è più facile che sia chi dispone di un reddito basso a ingerire cibarie ipercaloriche. Semplicemente perché costano meno. L’anno scorso il governo inglese ha lanciato un programma di distribuzione gratuita di un farmaco, l’Ozempic, per i cittadini obesi arrivati a un terzo della popolazione. In Italia, un decimo è obeso e altri quattro cittadini su dieci hanno fianchi, cosce e trippe più o meno debordanti. Non parliamo poi del faro della civiltà occidentale, gli Stati Uniti: nella patria delle maxi porzioni stra-zuccherate si è creato un mercato, con in prima linea un pugno di case farmaceutiche assetate di guadagni (dalla danese Novo Nordisk all’americana Eli Lilly), fatto di pillole su cui si sono già moltiplicati gli allarmi a causa della dipendenza che comportano. Esempio da manuale di rimedio peggiore del male.

Senza cadere nel moralismo salutista divenuto religione e a sua volta nicchia di mercato, è fuor di dubbio che uno stile di vita sedentario, da divano, atrofizzi, oltre che mobilità e manualità, anche l’immaginazione. Se a questo poi aggiungiamo lo spignattare e banchettare che ci scorre ossessivamente sotto gli occhi, lo sgradevole sospetto di rappresentare, per gli uffici marketing dell’adipe, dei maiali all’ingrasso mette sotto una diversa luce, tutt’altro che gioiosa, il dato per cui il 70% dei decessi, nel gaudente Occidente, è dovuto alle Non Comunicable Diseases, le patologie non trasmissibili: cardiopatie, diabete, cancro e tutta una congerie di disturbi psicologici e psicosomatici. Il superfluo ci assedia, nostro dovere è ingozzarci o bearci davanti a chi s’ingozza al posto nostro: di cibi, su cui discettare facendo il pelo e contropelo anziché farsi una mangiata senza tante pippe mentali, e più in generale di oggetti-status symbol, il nuovo I-Phone, la nuova auto, la vacanzina alla spa, l’hotel con vista, il gadget avveniristico, all’inseguimento vano dell’ultima, irrilevante variante. Come il sistema economico ha necessità, pena il collasso, di essere costantemente alimentato a furia di massicce dosi pubblicitarie da un’offerta che deforma la domanda, così noi consumatori, singolarmente presi, dobbiamo incessantemente, e tutti contenti, ingollare e defecare in rapidità. Di qui la persecutoria esigenza del “fare movimento” e l’edulcorazione del “light”, in modo da masticare, espellere e ricominciare  il ciclo con qualche alibi sul senso di colpa. E di qui la saturazione dello spazio visivo con un’orgia di pseudo-gourmands che titillano e istigano in continuazione il più primario e manipolabile dei bisogni: nutrirsi.

Ovviamente, questo condizionamento indotto fa anche da surrogato per colmare il ben più profondo vuoto spirituale di una società tarata sull’imperativo, insano alla radice, della Crescita puramente economica. Il cattivo rapporto con la tavola riflette il rapporto squilibrato che l’uomo oeconomicus ha con il mondo della vita e con il mondo tout court (per cui oggi il ricorso a insetti e carne stampata in 3D sembra, con una certa repellente logica, necessario, avendo distrutto a man bassa ecosistemi e biosfere in nome del massimo profitto). Ecco, caro lettore, perché ci siamo sorbiti, va da sé soltanto per la prima puntata, l’ennesima boiata da piccolo schermo: perché rende bene il senso che fa, o dovrebbe fare, tutta questa farsa di affamati. Affamati di senso. Un tipo umano che quando non può distruggere, s’industria per autodistruggersi. E di fronte a questa nauseante carrellata, non possiamo far altro che cortesemente chiedere, come l’ispettore Bloch in Dylan Dog, un anti-emetico, per favore.

Ps: a proposito di conati e critica sociale, si consiglia vivamente la visione del film, uscito nel 2022, “Triangle of sadness”. Parabola intrisa di sarcasmo, fa ridere amaro su ciò che in ultima analisi è la sostanza in eccesso che corpo e psiche umana non riescono ad assimilare se non, appunto, indotti da un capitalismo che rimuove gli istinti naturali, sostituendoli con desideri artificiali: vomito e merda.