La pellicola di Adrian Maben. I frammenti della nascita di “Dark side” documentano i prodromi di una guerra civile tra i due leader: Roger Waters e David Gilmour

(di Stefano Mannucci – ilfattoquotidiano.it) – Questo sandwich non è male, pensa Adrian Maben, seduto sui gradini dell’Anfiteatro Romano di Pompei. Ci è andato in gita da Roma, dove studia al Centro Sperimentale di Cinematografia, con la sua ragazza francese. La luminosa estate italiana del ’71. Ma il pomeriggio avanza, la visita agli scavi volge al termine. All’uscita Maben si accorge di aver smarrito il passaporto: chiede ai custodi di poter rientrare, di sicuro gli sarà caduto nell’Anfiteatro. Però ormai è l’imbrunire, le cicale friniscono, i pipistrelli volteggiano, l’aria si è fatta spessa, indecifrabile, pare segnata da miraggi. Niente, il documento è perso, ma nella testa del regista germina l’idea. Aveva già proposto ai Pink Floyd di girare un film concettuale ispirato da Magritte, Christo, l’arte sovrapposta all’arte. Il manager, Steve O’ Rourke, era rimasto scettico. Però qui le rovine “parlano”, è un deserto dei millenni affollato di fantasmi, speculare e contrario ai docu-concerti con centinaia di migliaia di adoratori attorno agli idoli, Pompei l’anti-Woodstock. Maben trae ulteriore ispirazione dal libro di Jensen, Gradiva, una donna di duemila anni fa che appare a un archeologo. Ora si tratta di ottenere i permessi per girare tra le vestigia della città sepolta dal Vesuvio. Adrien trova il contatto giusto: il professor Ugo Carputi, dell’Università di Napoli, è un fan dei Floyd e intercede presso la Soprintendenza. C’è il via libera per 6 giorni, all’inizio di ottobre ’71.

Quando da Londra arrivano i tir, ci si rende conto che i pompeiani di duemila anni fa non avevano previsto prese elettriche nell’Anfiteatro. Tre giorni con la band inoperosa, qualche ripresa a zonzo a Boscoreale, le solfatare. Finché il roadie Peter Watts (padre della futura attrice Naomi) trova la soluzione. Una “prolunga” di 750 metri dal Municipio di Pompei fino al set, dove troneggia uno studio mobile di 8-16 piste, perché i Pink Floyd suoneranno rigorosamente dal vivo. Senza pubblico, tranne una decina di scugnizzi che se ne stanno buoni buoni dietro le macchine da presa. Trent’anni dopo Maben tornerà e si vedrà avvicinare dal direttore dell’Ufficio Turistico: “Si ricorda di me? Ero uno dei ragazzini che vi chiedeva autografi”.

E che repertorio, per quel live irripetibile? Meddle uscirà un mese più tardi, nel novembre ’71: dall’album si pesca la vertigine suprema della suite Echoes e l’ossessione ritmica di One of These Days, nelle cui riprese appare unicamente Nick Mason alla batteria. Un omaggio al talento del drummer? Sì, ma anche l’unica chance visiva rimasta dopo lo smarrimento di alcune bobine del girato. Però la sequenza di Nick su One of These Days resta iconica: tanti adolescenti degli anni Settanta, dopo averla vista in un cinemino d’essai, compreranno le bacchette per picchiarle su un fustino di detersivo e sognare di essere il motore di Pink Floyd at Pompeii.

Film che Maben completa con le performance maestose su pezzi già rodati nei tour e nei dischi precedenti, Careful with that Axe, Eugene con l’urlo agghiacciante di Roger Waters, il gong suonato come un messaggero degli dèi e il battito dell’eterno, Set the Controls for the Heart of the Sun; o il canto celestiale di Dave Gilmour sul tappeto volante delle tastiere di Rick Wright in A Saucerful of Secrets. Capolavori, sortilegi. Eppure non bastano ancora: tolte le tende da Pompei, Maben trascina i Pink Floyd in uno studio televisivo di Parigi per integrare gli shot con l’utilizzo del transflex, il fondale con immagini prefilmate. In questa versione l’esperimento visuale della band si guadagna una premiere a Edimburgo nel ’72, poi va nelle sale come “primo montaggio”. All’inizio dell’anno successivo, durante una battuta di pesca sul fiume Teme, in Galles, Maben si sente proporre da Waters l’invito negli studi di Abbey Road, dove i Pink Floyd stanno infarinando un nuovo album, una summa dell’esperienza umana dalla vita alla morte: The Dark Side of the Moon.

Il regista va con una cinepresa da 35mm, riprende i musicisti mentre assemblano il puzzle. Gilmour sperimenta un assolo su Brain Damage e si sente dire da Roger che la chitarra sovrasta troppo il suono e va in feedback; Waters gioca con gli effetti del VCS3 per On the Run e dice che “non basta avere una Les Paul per diventare Clapton, così come non basta possedere un sintetizzatore per diventare noi”.

Non è ancora Augusto, ma già l’Ottaviano rivale dell’Antonio-Gilmour.

I frammenti della nascita di Dark Side, inseriti da Maben nel Pink Floyd at Pompeii più esteso, documentano i prodromi di una guerra civile tra i due leader e la vocazione imperiale di Waters.

Li ritroviamo oggi, nei cinema dal 24 al 30 aprile, con l’opera restaurata fotogramma dopo fotogramma (528 contenitori di scene inedite erano stati mandati al macero nell’Archivio francese), e con il suono (LP e cd in uscita il 2 maggio) remixato dal discepolo Steven Wilson, boss dei Porcupine Tree.

Dalla polvere e dalle ceneri di Pompei riaffiora il tempo ritrovato della mitologia rock.