Per anni ci siamo illusi che l’armonia si fondava sul diritto come fosse l’unica realtà possibile

(Domenico Quirico, Gabriele Segre – lastampa.it) – In un mondo tornato a parlare la lingua della guerra, la parola “pace” ritorna con forza nel discorso pubblico e nei pensieri di molti. Ma non è affatto scontato che significhi la stessa cosa per tutti. C’è chi la invoca come valore universale, chi la associa a un tempo di prosperità perduta, e chi la colloca al centro della propria visione politica. Abbiamo il dovere di interrogarci sul suo significato, a partire da una verità tanto semplice quanto scomoda: se vogliamo davvero la pace, dobbiamo essere disposti a metterla in discussione.
Domenico Quirico
Partiamo da una realtà storica: la pace, nei rapporti internazionali, non nasce da un sistema condiviso di diritti e di regole. Pensarlo è un’illusione. Non sono certo le regole ad aver impedito lo scoppio di nuove guerre nel mondo — e nemmeno in Europa — dopo il 1945. La pace è, per sua natura, uno stato transitorio: il risultato precario di un equilibrio tra potenze. Solo quando questo equilibrio si realizza, si può costruire un sistema di relazioni non violente tra Nazioni, ideologie, economie e interessi politici, in un determinato momento della storia.
Gabriele Segre
È proprio per questo che, per quanto faticoso, oggi dobbiamo ripensare cosa significhi davvero “pace”, e ancora di più cosa voglia dire “volere la pace”: due concetti molto diversi. Per anni ci siamo illusi, raccontandoci di un’armonia che si fondava sul diritto, come se fosse la sola realtà possibile. Ma si trattava di una coincidenza favorevole della storia. Oggi che quell’idea si è rivelata inadeguata e inapplicabile, ci ritroviamo spaesati.
Quirico
Proviamo ad affrontare la questione con spirito “socratico”: possiamo davvero definire la pace semplicemente come “assenza di guerra”? Si ama dire che l’Europa sia il continente della pace, ma è una colossale menzogna: gli Stati europei sono stati protagonisti di decine di conflitti, mossi da interessi opachi e loschi, propri o degli alleati. La pace, tutt’al più, è “assenza di guerra” in un determinato luogo e per un tempo limitato, mentre altrove il conflitto continua a infuriare. L’esperienza di quiete e concordia che abbiamo vissuto in Europa è stata garantita non da un ideale condiviso, ma dal timore reciproco delle superpotenze della distruzione nucleare.
Segre
Appena tre anni fa pochi in Europa avrebbero accettato una visione così cruda e realistica. Eravamo convinti che la pace fosse il frutto maturo di un sistema di valori — cooperazione, dialogo e convivenza — non una semplice sospensione delle ostilità. Oggi, invece, ci troviamo costretti a ridimensionarne la nostra idea, al punto che ci accontenteremmo perfino di una tregua. Questo disincanto può esserci utile: ci costringe a riconoscere che non è stata l’Europa, con la sua dolorosa esperienza storica, a generare la pace, ma che è stata quest’ultima — precaria, fondata sull’equilibrio che tu descrivevi — a rendere possibile l’Unione.
Quirico
In altre parole, potremmo dire che noi europei — che per secoli siamo stati i maestri nella pratica della distruzione reciproca — abbiamo issato il vessillo della pace solo quando “i Grandi e i Grossi” non ci hanno più permesso di fare la guerra. A furia di combatterci, eravamo talmente esausti da essere diventati irrilevanti. Ma allora, ci credevamo davvero in quel sistema di valori? O era solo una comoda finzione? Perché poi, noi “paladini della concordia globalizzata” eravamo i primi a stringere alleanze con regimi che di quei valori calpestavano ogni principio, in nome di interessi economici e strategici. È evidente quanto sia insopportabile continuare a cullarci in quella menzogna, impartendo lezioni ipocrite che non ingannano più nessuno.
Segre
C’è stato un tempo in cui anche solo formulare una riflessione così radicale sarebbe sembrato uno sfoggio insopportabile di pessimismo. Oggi, invece, sappiamo che quel mondo era irrealizzabile: lo abbiamo capito nel momento stesso in cui la forza è tornata al centro delle relazioni internazionali. E tuttavia, resto convinto che non possiamo sottrarci allo sforzo di far progredire quei valori. Il punto è che dobbiamo smettere di considerarli un’eredità acquisita e iniziare a trattarli come un progetto da costruire. Per farlo, però, occorre partire da due verità: che il mondo è molto diverso da come avevamo scelto di immaginarlo, e che quegli ideali, che ci sembravano ormai indiscutibili, vanno invece discussi. Perché hanno finito per generare le condizioni del loro stesso fallimento. È come un antibiotico: se il batterio impara a resistergli, dobbiamo cambiare terapia, non smettere di curarci.
Quirico
Però questo atteggiamento non è affatto condiviso. Oggi, chi sostiene la necessità della guerra — magari per difendersi da un “aggressore antropologico” come la Russia — viene celebrato come un eroe, pronto all’estremo sacrificio in nome della democrazia e della libertà. Al contrario, chi mette in discussione questa logica è spesso bollato come un pavido, un codardo che preferisce contemplare la natura anziché assumersi la responsabilità dell’azione. Eppure dovrebbe valere l’opposto: il vero coraggio sta nella forza morale e politica di resistere alla semplificazione del riarmo. La pace non è un comodo rifugio, ma una disciplina severa, che impone la fatica quotidiana di misurarsi con le storture della storia.
Segre
È qui che dovrebbe intervenire la politica. Una cultura capace di spiegare che il pacifismo non significa semplicemente “voler essere lasciati in pace”. È anzitutto uno sforzo immaginativo che si traduce in un progetto concreto, realistico e faticoso — doloroso. Chi oggi parla di pace deve sapere che essa non è mai stata sinonimo automatico di benessere. Il fatto che, per un certo tempo, le due cose abbiano coinciso non significa che il pacifismo non imponga sacrifici e scomodità. Come ogni progetto politico che non si limiti a enunciare un valore, anche questo ha un costo.
Quirico
Ed è proprio su questo punto che la classe politica europea ha fallito. Si è concentrata sulla tutela e sull’espansione del benessere, ignorando ciò che attorno poteva disturbare. Anche quando ciò significava intrattenere rapporti con regimi incompatibili con i nostri valori, come se il malessere altrui non ci riguardasse. L’Ucraina ne è diventata il simbolo: per anni abbiamo scelto di ignorare una realtà scomoda, perché turbava i rodati meccanismi del nostro sistema di convenienza. E lo stesso vale per il Medio Oriente.
Segre
E così, nel desiderio di “essere lasciati in pace”, non siamo riusciti a evitare la guerra.
Quirico
Esatto. Ora è il momento di riconoscere con onestà il fallimento. Non dell’idea di Europa, ma delle classi dirigenti che ne hanno avuto in mano il destino. Le stesse che, ancora oggi, invece di cambiare rotta, continuano a vedere nella logica della forza l’unica via percorribile. Una prospettiva miope e patetica, poiché saremo sempre, strutturalmente, troppo deboli per competere sul terreno della potenza brutale con coloro che forti lo sono già.
Segre
Su questo siamo d’accordo. Oggi è chiaro che la pace non può nascere dal solo diritto ed è evidente che non riusciremo a imporla con la forza. Ci resta un’unica strada, stretta e radicale, per costruirla: avere il coraggio di essere sinceri.
commento solo il titolo, perchè non riesco più a leggere questi autori altrimenti sono costretto a prendere quantità di antiemetico:
“Quirico, Segre e la pace: “L’Occidente si è perso””
VOI E I VOSTRI CAMERATI DA CHE PARTE ERAVATE?
provate a rileggervi e chiedetevi: quanto servo viscido sono stato?
quanto ho contribuito ad informare obiettivamente?
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Non è così difficile anche Quirico e l’ altro possono capiirlo. Pace significa starsene nel proprio paese a mani conserte e non con il dito sul grilletto, rispettare l’autodeterminazione dei popoli e non aizzare piccoli gruppi nazisti locali a fare rivoluzioni improbabili con cecchini che sparano sulla follia e sugli adenti dell’ ordine . Se non basta gli possiamo fare un disegnino.
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