CONCERTO DI VASCO ROSSI A SAN SIRO NEL 1990 (, MILANO - 0000-00-00) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

(Dario Olivero – repubblica.it) – Ma cosa vuoi tu più di così? Ogni volta che qualcuno pensa a una vita spericolata, esagerata, a una vita come quelle dei film, pensa a Vasco Rossi. Vasco, il Blasco, lo Strano Animale, coca casa e chiesa, che va a letto la mattina presto, che non si sa limitare, che non ha rispetto per niente, che va al massimo, a gonfie vele.

È solo lui, c’è solo lui. Ma dietro ogni parola che ha detto e scritto su Robinson — il supplemento culturale di Repubblica ancora in edicola tutta la settimana — come dietro ogni verso delle sue canzoni, si avverte l’anima fragile e poetica del suo lungo autobiografico racconto: sono una persona normale, che passa le feste a Zocca con la mamma anziana, che rivede gli amici d’infanzia, che per trovare un po’ di pace se ne va ogni tanto a Los Angeles, dove il signor Rossi si diluisce nella città e ritorna finalmente quello che dovrebbe essere, l’anonimo e universale signor Smith. E bisognerà pure riflettere su come quel suo cognome comune a tanti italiani, entrato nei modi di dire come la O di Otranto o la casalinga di Voghera, abbia trovato un equilibrio con l’inquieto nome da navigatore di oceani e esploratore di mondi al quale si accompagna fin dalla nascita, dall’infanzia di cui Robinson mostra le foto che nulla fanno indovinare del destino da rockstar, dall’adolescenza in provincia — la scuola di canto, la scoperta brutale del sesso in cui molti si saranno riconosciuti, le delusioni, le amarezze. Quello che Vasco ha regalato ai lettori è un romanzo di formazione che non risparmia nulla, gavetta compresa, cadute comprese, crisi comprese, dolcezza compresa, amore compreso.

Sì va bene, ma proprio tu che ti fai delle storie, cosa vuoi più di così, signor Rossi? Nulla di più probabilmente, se Vasco fosse “solo” una rockstar o uno di questi rapper o trapper (la t che differenzia gli ultimi due è il tasso di oscenità dei testi, pari a quello alcolico tra un americano e un negroni) pieni di risentimento che fanno l’amore con se stessi anziché con le loro bitch in cambio di una borsa di *** (piccolo spazio pubblicità). Ma Vasco, che pure era ed è secoli avanti nella incessante lotta contro il cretino conformista collettivo, invece sa bene che essere liberi non significa poter fare o dire tutto — anche se nessuno tra i suoi colleghi ha denunciato la stretta autoritaria dell’attuale governo rivolgendosi direttamente a un ministro — ma sapere da che cosa ci si libera. E sa bene che c’è sempre il rischio di risvegliarsi e vedere che è tutto qui, che si può rimanere con la testa tra le mani e rimandare tutto a domani, che bisogna continuare a vivere anche se sei morto dentro, che la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia. Perché Vasco è un poeta. E quella normalità che il signor Rossi reclama invano perché Blasco alla normalità ha rinunciato — e non c’è posto al mondo, neanche in fondo al mare, in cui possa ritrovarla — può rivivere trasfigurata solo nella poesia.