(di Silvia Truzzi – ilfattoquotidiano.it) – E siamo ancora qua, è successo anche questa volta: dopo un turno elettorale in cui l’astensione è stata il primo partito, i politici hanno liquidato la fuga dalle urne come una questione su cui “riflettere”. Dell’astensione parlano sempre più volentieri gli sconfitti, così possono spostare l’attenzione dal risultato, ma ne parlano con tanta convinzione quanto è l’impegno che impiegano per migliorare la situazione. In Umbria ha votato il 52 per cento degli aventi diritto, in Emilia-Romagna il 46 per cento, nemmeno uno su due. Il neo eletto presidente Michele De Pascale (che ha già ricevuto il bacio della morte dal Foglio) dice addirittura che temeva un dato di affluenza più basso, ma poi recupera con una assai saggia considerazione: le Regioni dovrebbero smetterla di chiedere maggiori poteri anche perché quando votano da sole i livelli di affluenza sono molto bassi, dunque meglio sarebbe occuparsi di quello che già c’è da fare. Va detto che in Emilia non è questa la peggior performance alle Regionali: nel 2014 l’affluenza si fermò a un tragico 37 per cento. Sia come sia, se nemmeno la metà degli aventi diritto va a votare, bisogna fare di più che riflettere per un giorno o vergare pensosi editoriali di critica a questo o a quel politico, al linguaggio violento o al populismo che signora mia.

La democrazia delle minoranze non è più una democrazia, è un’oligarchia in un’accezione mai così ampia nella storia repubblicana: partecipano in pochi e, grazie a pessime leggi elettorali, governano in pochissimi. I due aspetti sono ovviamente collegati dal momento che la distanza tra cittadini e politici passa attraverso la legge elettorale, deputata a regolare i meccanismi della rappresentanza, e se i cittadini non capiscono come il loro voto si trasforma in seggi non sono stimolati a esprimere una preferenza. Vale per leggi porcheria (come il Rosatellum) che normano le elezioni nazionali e per quelle, di stampo plebiscitario, in vigore per le consultazioni regionali, turno unico e maggioranza relativa, qualunque sia (da un’idea del camerata Tatarella). Ma ovviamente c’è di più. Le ideologie sono morte, non da adesso però; le idee pure sono morte e sempre non da adesso. Il guaio è che al loro posto non c’è niente di cui sentirsi parte e dunque per cui parteggiare. L’individuo fa tranquillamente a meno della rappresentanza, si arrangia da solo. Una comunità invece ha bisogno di una rappresentanza per far valere il patto di convivenza su cui si basa e in cui crede: per questo l’autoesclusione civica implica la morte della società, intesa come rete di individui associati che hanno scopi comuni. Naturalmente questa situazione fa comodo ai pochissimi che detengono il potere e si alternano alla gestione di quella che una volta si chiamava cosa pubblica; gli altri, i pochi che partecipano alla vita comune andando a votare, possono al massimo accontentarsi se la propria parte vince. Il cortocircuito di questa agonia democratica è che quelli che avrebbero interesse a cambiare le cose sono parte della maggioranza che, non trovando risposte al proprio malessere, opta per l’autoesclusione civica. L’abbiamo più volte scritto su queste colonne, è una catastrofe ignorata consapevolmente. L’attuale classe dirigente ha lo sguardo troppo corto per occuparsi di qualcosa che non sia la propria sopravvivenza e nella maggior parte dei casi non ha nemmeno gli strumenti intellettuali per operare un’inversione di rotta; non ci resta che sperare nei pochi che ancora credono nella democrazia, anche se sono sempre meno.