(di Marcello Veneziani) – Sarà perché sono meridionale, sarà perché da una vita difendo e sostengo l’unità e l’identità nazionale, ma non posso accettare l’autonomia differenziata approvata dalla maggioranza di centro-destra. Mi dissocio. E adotto anch’io, nel mio piccolo, l’autonomia differenziata: ovvero esprimo un pensiero autonomo e mi differenzio dalla loro decisione. 

Conosco le ragioni e pure le attenuanti generiche e specifiche per la scelta autonomista. Capisco che è nel dna della Lega, è la sua ragione sociale, non poteva smentirsi o ridursi solo a essere il partito del ponte di Messina; ci voleva una boccata d’ossigeno per un Salvini in difficoltà nel suo partito, esacerbata dalla sconfessione del padre fondatore (un po’ come Beppe Grillo con Giuseppe Conte): eppoi i mal di pancia per la candidatura di Vannacci e la fronda di alcuni notabili e governatori leghisti. In tema di autonomia va riconosciuta la coerenza e la determinazione di Calderoli nel perseguire il progetto a cui ha dedicato la sua vita politica.

Capisco pure che per il governo quel passaggio è una ragione vitale, anche se l’autonomia differenziata nega la storia della destra nazionale e sociale e la sensibilità della gente che vota per Fratelli d’Italia e un po’ anche per Forza Italia; ma in caso contrario si rischiava di far saltare il banco.   
Capisco che non si poteva varare il premierato senza accordarsi con l’alleato Salvini e il suo partito attraverso un do ut des bilanciato e sincronizzato (completa l’accordo a tre la riforma della giustizia che sta a cuore soprattutto ai berlusconiani). D’altronde presidenzialismo e federalismo fu la formula bilanciata con cui sopravvisse l’alleanza tra An e Lega, garante Berlusconi, anche se poi di fatto sul presidenzialismo si fece poco e niente. Ma la nazione mi sta più a cuore dei governi.

Il cammino verso l’autonomia ha avuto però il concorso attivo e determinante della sinistra, che ora riscopre l’unità nazionale e perfino il tricolore ma che fu in prima fila con la sciagurata riforma del titolo quinto della Costituzione e prima ancora nel sostenere la nascita sciagurata delle Regioni da cui cominciò il declino dello Stato italiano. 

Da anni sostengo che se c’era una cosa da abolire in Italia non erano le province ma le Regioni che hanno moltiplicato sprechi, baronie, burocrazie e clientelismo, creando rissosi staterelli e governatori mitomani. 

Con queste premesse, non posso essere favorevole all’autonomia differenziata, pur comprendendo alcuni ragionamenti che ne sono alla base, soprattutto in tema fiscale, attraverso una maggiore rispondenza tra prelievo e uso delle risorse, un riequilibrio tra il dare e l’avere. 

Se si frantuma il principio dell’unità nazionale e ognuno fa da sé e per sé, allora sciogliete le fratellanze italiane e accettate di presentarvi come Debolezza Italia al cospetto dell’Europa e dei poteri sovranazionali. Ogni autonomia produce frammentazione, egoismi, secessione permanente in nome di un noi sempre più ristretto.

So che ogni riforma in Italia è temperata dall’inefficienza e dalla malavoglia, si può sempre confidare sulla cattiva e svogliata applicazione delle leggi, su chi si mette poi di traverso e sui tempi sempre lunghi in cui gli effetti potranno realmente vedersi; ma non è detto che questo sia benefico al Paese, una riforma minata potrebbe raddoppiare il danno anziché attenuarlo. L’autonomia differenziata è un ordigno letale per il corpo fragile e malmesso di una nazione che già ha poca reattività, poca voglia di unità e di valori, e nemmeno va a votare a larga maggioranza. Un paese in cui una secessione è già avvenuta, del popolo astenuto dal popolo votante. 

Sono altresì convinto che se il governo Meloni avesse scelto la via opposta, la difesa dell’unità e dello Stato centrale, la sinistra sarebbe scesa in piazza ugualmente, per sostenere l’autonomia differenziata…

Prima di compiere a cuor leggero un passaggio fatale, destinato a cambiare il destino del nostro Paese, prima di lasciarsi prendere da calcoli utilitaristici e contingenti, dimenticando le questioni profonde ed essenziali, ripensate il ruolo e il significato dell’Italia con senso storico e critico. L’Italia si è unificata, si è modernizzata, alfabetizzata, industrializzata, fino a diventare una grande nazione, nei centodieci anni in cui è stata unita, superando le sue storiche frammentazioni e divisioni. 

Ha superato in quell’arco di tempo, che si aprì dopo il Risorgimento e la pur controversa Unità d’Italia, grandi traumi, l’emigrazione e le differenze tra nord e sud, due guerre mondiali, una guerra civile, adottando il modello di uno Stato unitario e centrale con cento province e prefetture. Il modello italiano si è affermato non solo per quel sistema misto tra pubblico e privato in economia ma anche perché all’intraprendenza dell’imprenditoria privata al nord, ha corrisposto la presenza di un ceto pubblico, nelle scuole, nelle forze dell’ordine, nelle prefetture, nell’impiego statale e nella sua dirigenza, proveniente largamente dal meridione d’Italia. Come del resto la manodopera per l’industria del nord. Si creò dunque un equilibrio tra nord e sud con cui il nostro paese conquistò prosperità e diventò la quinta potenza industriale nel mondo. Il declino istituzionale, amministrativo, morale e civile d’Italia, coincise con la nascita delle Regioni. Al di là degli schieramenti va salvaguardata l’unità nazionale contro coloro che scavano ancora fossati e trovano fascisti e fobie dappertutto. 

Rischiamo di compromettere con le decisioni di oggi le generazioni di domani e l’avvenire di un Paese, accelerando il suo evaporare, finire in brandelli e presentarsi disintegrato nello scenario internazionale. Senza nulla togliere ai nostri legami locali e provinciali, alle nostre differenze regionali, siamo italiani, e tali restiamo, nonostante tutto e malgrado le frequenti pulsioni fratricide da figli unici. Nel bene e nel male.