
(di Alessandro Robecchi – ilfattoquotidiano.it) – La poderosa opera di saggistica-narrativa-romanzo rosa che ci tocca leggere da un paio di anni a questa parte e che potrebbe essere intitolata, nel suo immenso campionario, “Fenomenologia di Giorgia Meloni”, lascia aperte alcune domande a cui gli studiosi dovranno prima o poi rispondere. Il nostro, dunque, è un appello agli storici, agli esegeti, ai biografi, insomma a tutti i contemporanei di Giorgia che si applichino allo studio del personaggio.
Per esempio, qualcuno potrebbe spiegare perché mai nelle fotografie ufficiali, soprattutto in quelle della propaganda (santini elettorali, meme, post su Instagram e Twitter), Giorgia Meloni fissa sempre il cielo con aria ieratica e ispirata? L’immagine standard è presa da sotto in su, il cielo è azzurro con qualche nuvoletta cotonosa bianca, al centro dell’immagine c’è lei, la faccia seria ma non corrucciata, come ispirata in attesa del raggio divino, gli occhi che fissano la volta celeste. Che succede? Passano le frecce tricolori? Oppure il riferimento culturale è un santino di Santa Rita? Oppure Giorgia guarda in alto perché il cognato Lollo è salito su una palma e non sa più scendere? Qualcuno risponda. La sensazione è che quell’immagine ci voglia dire che lei – lei Giorgia – non è una che guarda qui, ma avanti, sopra, in un luminoso futuro che sta costruendo per noi. Il volto è quello dell’immaginetta sacra, o se preferite quello di John Belushi quando “vede la luce” nei Blues Brothers. Insomma: qualcosa la tocca, qualcosa la illumina, è in missione per conto di Dio, e quel volto offerto al cielo ce lo dice chiaramente.
Purtroppo, però, con la vita terrena Giorgia deve fare i conti, e così ecco il leitmotiv del suo calvario, della sua fatica, della croce da portare ogni giorno. Non c’è intervista, confronto, confessione davanti a indulgentissimi confessori, in cui non ci faccia sapere quanto è stanca, quanto non le piace questa vita di impegni e agende piene, quanto senta su di sé la fatica non tanto di vivere, piuttosto il sacrificio di vivere per noi, di immolarsi per il nostro bene. Che vita è questa?, sembra dire Giorgia, e qui il sacro rientra nella storia, perché sembra di vedere l’immenso Corrado Guzzanti nelle vesti del profeta di Quelo: “Ma lo sa a che ora me so’ arzato io stamatina?”. “Ma lo sa Aldo quanto me lo ha messo er carburatore?”. “La bambina ha de nuovo vomitato in maghina”.
Il messaggio è chiaro e limpido: guardate che vita che faccio, mannaggia, credete che mi piaccia? Lo sa a che ora me so’ arzata io stamatina? E siccome a questa domanda retorica la risposta potrebbe essere la più scontata (Oh, Giorgia, mica te l’ha detto il dottore, se soffri tanto…), segue la rivendicazione di santità: lo fa per noi, offre il suo corpo, il suo tempo, le sue energie a un ideale più alto, che sarebbe il bene della Nazione, che intanto se ne va allegramente a rotoli nonostante i miracoli e lo sguardo mistico-sacerdotale.
Sono dettagli, certo, nell’immensa fenomenologia di Giorgia, ma non così secondari. Fanno parte dell’impostazione passivo-aggressiva e del vittimismo meloniano che tutti sappiamo. Ma c’è di più: il potere che si lamenta del peso del potere è un grande classico, per cui si spera che un lavoratore povero che non può mandare il figlio dal dentista perché non ha i soldi, o deve arrabattarsi con il terzo lavoretto, o mette da parte centesimo su centesimo perché la fine del mese non sia un incubo, sia portato a pensare: poverina, Giorgia, come soffre, che vita di merda che fa.
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E’ proprio brutta la sua pubblicità su YT, quella dove attori dicono “voto Giorgia perchè è una del popolo” e scemenze simili.
Io sapevo che gli artisti si presentano solo con il nome o uno pseudonimo.
Questa veramente è convinta di essere una “star internazionale”. E’ vero che il suo “lavoro” consiste fondamentalmente nel recitare (“con il favore delle tenebre!!!”) facendo sceneggiate (“soy una mujer!!!) che fanno colpo sugli ingenui, ma il voler pure sdoganare il “nome d’arte” è ridicolo.
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Una attricetta da 4 soldi, che da’ il senso a un paese per la maggioranza in coma profondo, coi criceti a ruota libera e in piena sovranita’ eurobabbea.
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Nell’Accademia di Arte Drammatica insegnano una tecnica di immedesimazione dell’attore nel personaggio da interpretare. Si tratta di far proprio e assimilare il modo di essere e di pensare del soggetto da emulare, così come l’autore l’ha pensato nella fase di scrittura del testo. Per fare degli esempi: se il personaggio è malvagio o buono oppure innamorato o depresso etc. in un dato contesto ambientale e storico, l’attore ne metabolizza preventivamente il carattere essenziale al punto che una volta sul palco possa emergere con una certa naturalezza. Ne consegue che la recitazione (cioè l’annullamento della personalità dell’attore per fare in toto un’altra persona) procede speditamente addirittura con l’aggiunta o la modifica delle battute contenute nel testo originario, purché coerenti con la personalità del soggetto da interpretare. Un po’ come un romanziere che inventa un personaggio che nel prosieguio delle vicende narrate acquisti forza e vita propria che l’autore si impone solo di assecondare tenendo presente solo l’obiettivo finale da raggiungere.
La Meloni all’inizio ebbe l’idea di inventare la famosa frase (sono una donna etc.) recitata sul palcoscenico con una certa passionalità quasi al ritmo di rap, al punto da riuscire a “stregare” il pubblico beota. Non ha mai smesso di seguire puntigliosamente quel canovaccio, a prescindere dall’argomento trattato. Si è solo promessa il compito di stupire sempre e comunque il pubblico, anche dicendo delle emerite castronerie, anzi stronzate, ma con il tono e il piglio del personaggio ideale che ha deciso di interpretare.
Mi ricorda una scena di B. in un teatro affollato di semipensionati in stato di sonnolenza (il suo mitico pubblico di telespettatori meno svegli di dodicenni con scarso quoziente intellettivo). Una volta esaurito il repertorio, non sapendo più cosa inventare e dire, pronunciò allegramente la seguente insulsa frase: “Spero, prometto e iuro… reggono l’infinito futuro!”. Una regola di grammatica latina che non c’entrava assolutamente una cippa con quel contesto. L’applauso fu fragorosissimo! Come a voler intendere che lui poteva dire la qualunque con successo perché se lo poteva permettere.
Dura minga… non dura… non può durare tanto. Prima o poi il pubblico si stancherà della solita manfrina peraltro infarcita di bugie, e allora… crollerà il teatro!
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