(di Marina Savarese – lindipendente.online) – Nessuna passerella scintillante, niente luci e nessun tipo di sfarzo. Solo la poca terra del deserto che ancora rimane scoperta e la grande quantità di vestiti abbandonati in quel che un tempo era un luogo scenografico famoso per la sua naturale bellezza. Adesso, a fare da scenografia alla Atacama Fashion Week non ci sono più le dune, ma montagne di vestiti gettati al suolo, che hanno consacrato questo luogo trasformandolo in una gigantesca discarica a cielo aperto, visibile anche dallo spazio. Ed è in questa cornice spaventosa e surreale, ma purtroppo iper-realistica, che è andata in scena la sfilata organizzata dall’ONG Desierto Vestido in collaborazione con Fashion Revolution Brazil e Artplan, dove modelle e modelli hanno calpestato una passerella circondata di monnezza.

Un modo per portare luce sul problema, mostrando l’impatto devastante del sistema moda sia sull’ambiente sia sulle comunità locali; utilizzando il sito stesso come cornice insolita ed i rifiuti come parte della possibile soluzione. Gli abiti in passerella, disegnati dalla stilista Maya Ramos, sono stati creati partendo proprio dai materiali recuperati dalle discariche, che vengono reintegrati nel mondo della moda grazie alla creatività di designer illuminati. La collezione, infatti, si ispira ai quattro elementi (terra, aria, acqua e fuoco): un omaggio a quel Pianeta che stiamo consumando e inquinando, e nello stesso tempo una forma di denuncia a quel sistema di moda veloce che, invece di portare bellezza, sta devastando e depredando. L’ Atacama Fashion Week ha come l’obiettivo quello di sensibilizzare l’opinione pubblica, ma anche di raccontare nuove vie possibili, quelle dove i rifiuti possono diventare una forma d’arte, un mezzo di denuncia e nuovi abiti da inserire nell’armadio.

Il problema di Acatama (e del colonialismo)

In foto: un’enorme quantità di vestiti abbandonati nel deserto di Atacama, Cile (foto di Jason Mayne).

Ogni anno, in Cile, arrivano circa 60.000 tonnellate di abiti usati, dei quali più della metà finiscono illegalmente in discariche a cielo aperto (se ne contano circa 160). I rifiuti tessili, spesso vengono bruciati illegalmente, immettendo nell’atmosfera fumi tossici che hanno pesanti conseguenze sia sulla salute delle persone che vivono nelle aree circostanti sia sulla salute del suolo. Un rilascio a getto continuo, dovo a poco sono servite le sanzioni introdotte dalle autorità locali. E ancora a meno è servita la famosa “responsabilità estesa del produttore” che, in territorio cileno, non include la gestione del tessile, lasciando quest’ultima in preda alla più totale illegalità.

Non a caso, nel 2022, è stata avviata una causa dall’avvocato Paulin Silva presso il Primo Tribunale Ambientale, per indagare sulle responsabilità locali e statali delle discariche in questione. L’accusa al Tesoro dello Stato e al Comune di Alto Hospicio è quella di non aver tenuto sotto controllo in maniera adeguata le zone periferiche dove si sono andate ammassando, nel corso degli ultimi 20 anni, tonnellate su tonnellate di vestiti usati. Il gioco dello scarico delle responsabilità è iniziato subito, dove il comune sostiene che il problema è ormai troppo grande per poter risolverlo da solo, reclamando l’aiuto dello Stato che, a sua volta, ha rimbalzato la responsabilità sul Comune. Una gara all’ultimo rimpallo, dove, in ultimo luogo, entrano in ballo anche le aziende mondiali che dovrebbero occuparsi dei loro rifiuti proprio grazie alla famosa EPR.

Il  problema della gestione, dunque, non è solo locale, ma globale, dato che il sud del mondo viene usato come cestino della spazzatura da un Occidente sempre meno attento agli altri e sempre più orientato ai propri interessi. Una forma di razzismo ambientale e di colonialismo in piena regola, dove i Paesi ricchi si sentono in diritto di devastare a cuor leggero le comunità meno forti dall’altra parte dell’emisfero. E dove, a cuor leggero, si comprano e si buttano (ancora) centinaia di migliaia di vestiti ogni anno.