(di Michele Serra – repubblica.it) – Ha fatto benissimo l’attore Alec Baldwin, braccato in una caffetteria di New York da una energumena che lo inquadrava con il suo smartphone intimandogli di gridare “Free Palestine” (aveva deciso lei, non Baldwin, che Baldwin dovesse pronunciarsi in rete), a liberarsi con una manata di quel telefonino inquisitore, un piccolo Torquemada portatile.

Il fanatismo si muove sui due fronti, quello che vede antisemitismo ovunque (vedi il caso Zanchini alla Rai: vergognoso anche solo sospettarlo di antisemitismo), quello che impone di strillare “a morte Israele” se no vuol dire che sei favorevole al genocidio dei palestinesi. Sapessero quanto si assomigliano, i fanatici delle due fazioni, si farebbero qualche domanda. Sono l’uno lo specchio dell’altro.

La facoltà di ascolto — orecchie aperte; dovuto peso alle parole proprie e altrui — sta scemando a tutta velocità. L’impressione è che si ascoltino le parole degli altri soprattutto per emendarle, criticarle, censurarle, metterle nel mucchio dei “mi piace” e “non mi piace”, mai per cercare di capire che cosa sta dicendo chi sta parlando. L’uso odioso dell’altro come pretesto per confermare i propri pregiudizi va combattuto come la peste.

La manata di Baldwin non è spendibile in alcuna maniera nel derby tra ultras filo-israeliani e filo-arabi. È una vigorosa richiesta di rispetto, di silenzio, è il rifiuto di schierarsi con un clic, con un tweet, con uno slogan, nel mezzo di una strage senza fine e di un odio secolare.

Siamo tutti Alec Baldwin, siamo tutti quella manata liberatoria quando gli ossessi delle due curve prendono possesso dello stadio, e la sola legittima necessità di ciascuno è abbandonare gli spalti, rifiutarsi di prendere parte a quello scempio, a quella messa a morte della ragione.