L’Ue non ha un’identità, il senso della propria storia. Così non è ancora riuscita a essere un vero soggetto politico

(di Ernesto Galli della Loggia – corriere.it) – Da anni l’Europa non riesce a fare alcun passo avanti decisivo per diventare un vero soggetto politico. Cioè capace di avere una politica estera comune e quindi di cercare di contare qualcosa nell’arena mondiale. Il che a sua volta implicherebbe, naturalmente, avere anche un apparato militare comune, obbediente ad un unico comando nonché dotato di un armamento eguale per tutti i contingenti, magari fornito da un unico produttore.
Ma l’Unione europea da questo orecchio non ci sente. I governanti dei vari Paesi membri non intendono fare il passo necessario per costruire una politica estera e militare comune, e cioè rinunciare a una parte cruciale della sovranità nazionale di cui essi sono i titolari. Il fatto decisivo è che dietro un tale rifiuto c’è una ragione che ogni democratico non può non tenere nella massima considerazione: e cioè che la maggioranza dei loro elettori non lo vuole. Vale a dire che la grande maggioranza dei cittadini dei Paesi europei non si sente affatto «europea». Per meglio dire, non si sente innanzi tutto europea e solo poi lettone, olandese o italiana: come sarebbe invece necessario per dar vita a un’autentica Europa politica. È vero infatti che nel nostro continente prima sono nati gli Stati e poi i suoi cittadini. È vero insomma che prima è nato il Regno di Francia o il Regno di Spagna, e solamente dopo, spesso molto dopo, sono nati i francesi o gli spagnoli con la consapevolezza di una propria identità nazionale.

Identità che, essendo una creazione storica, non ha quindi nulla di «naturale». Ma attenzione: ciò non significa affatto che allora questa identità nazionale sia qualcosa di artificiale, di posticcio, che possa esser eliminata o cambiata a piacere come si cambia d’abito. La storia infatti, cioè il trascorrere del tempo, produce anch’essa realtà. Crea sentimenti, modi di pensare, di essere e di vivere, produce persone con la loro propria soggettività. Una soggettività che in Europa da un paio di secoli si è abituata alla democrazia: un fatto che ha cambiato tutto o perlomeno molte cose che riguardano il discorso che stiamo facendo.

Infatti, mentre a suo tempo nessuno chiese a coloro che si trovavano a vivere nel regno di Francia o di Spagna se volevano diventare francesi o spagnoli, sicché tutto calò su di loro dall’alto, oggi, invece, se si vuole far nascere uno Stato europeo bisogna chiedere agli europei se sono d’accordo. Se accettano di abbandonare una condizione che spesso è la loro da secoli per acquisirne una nuova e sconosciuta: appunto per far nascere la sospirata Europa politica. Chiunque capisce che non è una cosa facile. Tanto più che ciò ha coinciso e coincide con una trasformazione decisiva avvenuta negli ultimi decenni delle classi dirigenti del continente. Trasformazione che ha un nome: la scomparsa della politica.

Dall’uscita di scena di coloro che avevano vissuto la temperie europea della guerra e del dopoguerra — di personalità come Kohl, come Mitterrand, come Delors o come gli esponenti della vecchia Democrazia cristiana: ma non dimenticherei anche la signora Thatcher — nei Paesi guida del continente non è più arrivato ai vertici del potere nessun leader capace di misurarsi con la politica nell’accezione forte del termine, con la politica che mira a cambiare le cose, a far nascere il nuovo. Nessun leader capace di memoria storica e di guardare al di là dei propri immediati interessi elettorali, con la conoscenza dei grandi problemi e la passione dei grandi disegni. Come fu ad esempio la decisione audacissima che portò alle soglie del Duemila alla nascita dell’euro.

Invece dopo di allora il vuoto. Dopo di allora la costruzione europea è progressivamente caduta nelle mani delle burocrazie, si è invischiata nella peste dei «competenti», delle commissioni, dei contabili del deficit e dello «sforamento». Si è preoccupata solo di distribuire soldi. Cullandosi nell’illusione che la formula pretenziosa dello «spazio di libertà, di giustizia e di pace» con cui da un certo punto in poi la Ue ha cominciato a definirsi potesse costituire un effettivo richiamo ideale, il principio di appartenenza ad una patria. Ma da che mondo è mondo una banca o un tribunale non hanno mai costituito un principio di cittadinanza. Ben altro che il Pnrr ci vuole per convincere qualcuno a non dirsi più ceco o spagnolo ma europeo.

L’Ue insomma ha mancato a quello che avrebbe dovuto essere invece il suo primo compito: fare gli europei. Nel solo modo in cui ciò è sempre avvenuto: dando agli abitanti del continente il senso della loro storia, dei valori (anche religiosi) cui essa ha dato vita, dell’unicità e, se è permesso dirlo, della grandezza e dell’importanza dell’una e degli altri. Raccontando anche le sue pagine nere, naturalmente, ma insieme gli insegnamenti che l’Europa è stata capace di ricavarne. Certo, per tutto ciò sarebbe stato necessario sfidare qualche luogo comune del politicamente corretto, e soprattutto decidere che cosa si è: che cosa si vuole essere o non essere. E dunque compiere qualche scelta ideale, forse addirittura qualche scelta coraggiosa, indicare un passato e a partire da esso avere un progetto, un sogno. Insomma sarebbe stata necessaria la politica perché solo la politica così intesa fonda gli Stati e costruisce l’identità dei popoli. Altrimenti non resta che fare solo chiacchiere e ogni cinque anni le elezioni.