Da Giorgia Meloni a Matteo Salvini e Matteo Piantedosi, l’esecutivo è maniacale nel controllo delle opinioni. Con derive autoritarie che ricordano quelle dell’alleato ungherese

(di Enrico Bellavia – lespresso.it) – Ci diciamo, forse per rassicurarci, che no, il fascismo non tornerà. Non ci fanno paura teste rasate e braccia alzate ai raduni tollerati, non ci intimoriscono gli slogan urlati, le tribune d’odio e i soliloqui da agenzia Stefani. Dovrebbero preoccuparci i segnali però: la Digos, quella che un tempo chiamavano polizia politica, interviene a identificare a Milano i partecipanti a una manifestazione dopo la morte di Aleksei Navalny e in ricordo di Anna Politkovskaja, prima vittima di un lungo elenco di omicidi contro la parola attribuiti all’establishment putiniano. Perché, evidentemente, anche questo governo dei Meloni, dei Salvini – e anche dei Piantedosi – ha un problema con le parole, con le opinioni, con la libera manifestazione del pensiero.

Prendete il vicepremier, già estimatore pentito del munifico autocrate russo. Vuole trascinare in tribunale Carlo Calenda, reo di avere ricordato i suoi trascorsi prima che il leader leghista si decidesse a una sofferta quanto contorta presa di distanze per la morte dell’oppositore. Lo stesso segretario dell’ex Carroccio che, insieme con la premier, contrabbanda per giustizia indipendente quella che nell’Ungheria dell’amico Viktor Orbán tiene in catene Ilaria Salis.

Dai bavagli ai colpi di spugna fino all’incubo premierato, in varie forme, va profilandosi una sorta di attacco permanente al dissenso. Si nutre di roba seria ma anche di uno stillicidio di interventi di disturbo – contro gli studenti, ad esempio – e di una selva di sparate a effetto che producono un vago clima intimidatorio. Prendete l’idea di un Daspo a chi esprime opinioni negli show, trovata anti-Ghali del sottosegretario leghista Alessandro Morelli: il ridicolo lo avrebbe già sommerso se non ci fosse chi, abile nell’esercizio italico del servilismo, non pensasse di elevare una tale corbelleria al rango di linea guida per la vigilanza Rai.

Di Morelli che ha un incarico più lungo del curriculum – sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al coordinamento del Comitato interministeriale per la Programmazione economica e lo Sviluppo sostenibile – sappiamo che è anche «giornalista dal 2004» e ha «diretto Rpl». Se solo non vivessimo sotto il giogo degli acronimi sapremmo che si tratta di Radio Padania Libera, oggi Radio Libertà. Ed ecco che basta svolgere una sigla per chiarirsi sull’esternazione di Morelli, sulla sua idea di libertà. E farsi anche un’idea sui “canali” per essere maggioranza in un Paese come il nostro.

Prendete chi sulla tragedia annunciata di Firenze, cinque operai uccisi dalla trave malferma di un nuovo centro commerciale Esselunga, vede un danno collaterale «dell’immigrazione selvaggia». E tace sulla deregulation da ubriacatura liberista nei cantieri, pubblici e privati, tanto cavalcata dal genio pontiere leghista. Che poi, forte con i deboli e debole con i forti, invoca pene esemplari e carcere duro a destra e a manca. Tacendo sui controlli che forse crescono di numero, come dice la ministra Marina Calderone, ma si sviliscono in efficacia, durata e profondità di caccia alle inadempienze. Perché gli ispettori sono cronicamente insufficienti e la deriva autocertificatoria ha declassato la sicurezza sul lavoro al rango di noia burocratica, riducendo a carte bollate la prevenzione infortuni.

Il resto lo fanno i subappalti fuori controllo, rovescio della pratica di ribassi scriteriati in un mare di fondi allegri. Di manovalanza a basso costo e di cemento depotenziato. Pratiche che certo sveltiscono i cantieri ma poi, in silenzio, riempiono le camere mortuarie. Di operai italiani come di scuri di pelle da tutti i Sud del mondo che si impongono, vengono a rubarci una paga da fame e per di più, crepando, avrebbero l’ardire di farli tacere. Di vergogna.