L’innovazione introdotta sperimentalmente dal governo con l’assegno universale per gli anziani gravemente insufficienti non è la sua universalità, ma l’integrazione

Quell’equivoco sul bonus anziani

(CHIARA SARACENO – lastampa.it) – L’innovazione introdotta sperimentalmente dal governo con l’assegno universale per gli anziani gravemente insufficienti non è la sua universalità come è stato un po’ furbescamente lasciato credere negli annunci ufficiali. Questa è già una caratteristiche dell’assegno di accompagnamento, introdotto in Italia dalla legge 18/1980, che viene riassorbito, per la ridottissima platea che lo riceverà, nel nuovo assegno universale sperimentale. La novità consiste in una integrazione, certo consistente (850 euro che si aggiungono ai 531 dell’assegno di accompagnamento, destinata tuttavia ad una platea molto ristretta: non tutti gli invalidi civili totalmente non autosufficienti indipendentemente dall’età e dal reddito, come l’assegno di accompagnamento, ma solo a quelli tra loro che sono ultraottantenni e poverissimi (sotto i 6000 euro di ISEE). Quindi si tratta di una misura fortemente categoriale, non universale.

Ma non è questo il limite principale, stante che si tratta di una sperimentazione di una misura di sostegno alle persone gravemente non autosufficienti che offra la possibilità di scegliere tra l’erogazione diretta di servizi o invece la disponibilità di un budget di cura da spendere in servizi di propri scelta. Gli 850 euro aggiuntivi, infatti, devono essere necessariamente spesi per l’acquisto di servizi, badanti incluse. Anche se ci si può chiedere che validità abbia una sperimentazione così fortemente limitata per quanto riguarda le caratteristiche, e i bisogni, dei beneficiari. I limiti più seri stanno altrove. La sperimentazione di un assegno comprensivo al posto dell’erogazione diretta i servizi è prevista all’articolo 5 della legge delega 33/2023 in materia di politiche a favore delle persone anziane. Quindi dopo l’articolo 4, che disegna un progetto complessivo di riordino delle misure rivolte alle persone non autosufficienti, che prevede sia un rafforzamento sia una integrazione dei servizi sociali e sanitari per un approccio olistico e non segmentato. Al cuore di questo sistema dovrebbe esserci un approccio individualizzato, anche se basato su criteri trasparenti e omogenei sul territorio nazionale, sulla cui base definire il “budget di cura”.

Per realizzare questi obiettivi la legge delega impegnava il governo ad approvare entro il 31 gennaio, cioè oggi, uno o più decreti legislativi. Nulla di ciò è avvenuto e l’attuazione della legge delega continua ad essere avvolta nella nebbia, salvo che per il topolino di questa sperimentazione che, oltre ad essere fortemente limitata nel target, lo è anche nel contenuto, visto che non si tratta di offrire una scelta tra erogazione diretta di servizi e gestione in proprio di un budget, ma solo della seconda cosa. La disponibilità di servizi – di mercato o di terzo settore – appropriati è infatti molto eterogenea sul territorio nazionale. Si potrebbe sostenere che in questo modo si favorisce lo sviluppo di un mercato della cura. Non ci sarebbe nulla di male, posto che la disponibilità e accesso ai servizi fosse garantita, ovvero fossero definiti e realizzati i Livelli essenziali in questo campo, cosa ben lontana dalla realtà, e che ci fossero seri criteri per l’accreditamento e controlli sulla qualità dei servizi, di mercato e non. Aggiungo che, anche quando i servizi ci sono, richiedono informazioni e conoscenze per valutare che cosa è appropriato e necessario. Conoscenze che non sempre le persone non autosufficienti e i loro familiari hanno. Come già succede con l’assegno di accompagnamento, l’erogazione monetaria non è accompagnata da servizi di consulenza, orientamento, che sostengano scelte appropriate e ne monitorino l’effettiva efficacia sul benessere della persona non autosufficiente. Ciò che si dovrebbe fare, appunto, con i budget di cura, in qualsiasi forma questi poi vengano attuati.