(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Con grande sprezzo del pericolo e del ridicolo, Giorgia Meloni e i suoi Fratelli stanno mostrando agli italiani cosa sia e come funzioni la “capocrazia” che hanno in testa per questo Paese. Lo sgangherato attacco della premier a Repubblica, per interposto editore, tradisce la sua idea malsana di Stato Padrone e la sua dottrina illiberale del Potere. Rivela una gestione proprietaria del governo e dell’amministrazione. Riflette una visione gregaria dell’economia e dell’informazione.

MA non bastavano le accuse grottesche che la presidente del Consiglio ha lanciato dalle telecamere complici di Rete Quattro. Non erano sufficienti le critiche surreali a questo giornale sulle privatizzazioni, inopinatamente e strumentalmente collegate alle strategie industriali del proprietario del gruppo Gedi, John Elkann. A queste adesso si aggiunge la velina diffusa da Palazzo Chigi che, come ai bei tempi del Duce e dell’Agenzia Stefani, detta la linea del giorno ai parlamentari della maggioranza e ai turiferari della stampa di regime. Ed è la stessa già indicata dalla premier tre giorni fa, ribadita e rafforzata con ulteriori farneticazioni: “Repubblica, per coprire l’interesse dell’editore, scopre la guerra con il governo”. Questo il “titolo” del Mattinale vergato dagli uffici del sottosegretario Fazzolari, il Pavolini in minore che sovrintende al nuovo Minculpop.

La tesi, aberrante, è che questo giornale non ha titolo per sollevare dubbi sulla vendita di società pubbliche annunciata dal governo, perché la società editoriale che lo controlla è di proprietà di un imprenditore che ha venduto all’estero la Magneti Marelli e ha trasferito oltre frontiera la sede legale e fiscale delle sue aziende. “Da che pulpito!”, tuona il Grande Inquisitore dell’Italietta meloniana, autarchica e anticapitalista. E poi aggiunge “che faccia tosta” questo quotidiano del gruppo Gedi e questa sinistra che per decenni “hanno attaccato Mediaset, Il Giornale, Panorama, dipingendoli come inattendibili perché di proprietà della famiglia Berlusconi”, e oggi invece “si scandalizzano se qualcuno ricorda a chi corrisponde la proprietà di Repubblica”.

Sono deliri che non meriterebbero una risposta, se non promanassero direttamente dall’aspirante “Statista” che guida una grande liberal-democrazia europea (quale ancora vorremmo essere, nonostante tutto) e dai suoi “bravi” che comandano a bacchetta una coalizione totalmente irreggimentata. Lasciamo stare le privatizzazioni malfatte e l’assenza di una politica industriale che dovrebbe far da sfondo alle dismissioni, problemi antichi che ci portiamo dietro dai saldi di fine Prima Repubblica del 1992 e che accomunano tutti i governi degli ultimi trent’anni. E lasciamo stare anche John Elkann e le sue scelte imprenditoriali, opinabili o discutibili, ognuno è libero di considerarle come vuole, ma comunque coerenti con le leggi dello Stato e del mercato (come ricorda il Foglio, non a caso, sono ben 13 i grandi gruppi industriali italiani che hanno trasferito la sede fiscale e legale all’estero).

Qui il nodo è ben altro, e riguarda la qualità della nostra democrazia. Purtroppo, come succede anche per la giustizia, Meloni si sta rivelando la più degna erede di Berlusconi. Come il Cavaliere, anche la Sorella d’Italia non sopporta il dissenso, ed usa tutte le leve che ha per intimidire, delegittimare, silenziare. Come il Cavaliere, anche la Sorella d’Italia ritiene che, se un capitalista possiede un organo di informazione, trasforma per ciò stesso i giornalisti che ci lavorano nei suoi pierre o nei suoi utili idioti. Come il Cavaliere, anche la Sorella d’Italia crede quindi che tutti i giornali che non le fanno la ola siano portatori di un conflitto di interessi, perché bracci armati di un “padrone in redazione” (la formula cara a Giorgio Bocca).

Bisogna dire a Meloni e ai suoi corifei che non le cose non stanno così. Bisogna spiegare a lei e a loro che non sempre i giornalisti che lavorano per un editore ne sono i servitori o i cantori. Soprattutto, bisogna far capire a costoro una differenza fondamentale sul conflitto di interessi. Nel caso di Berlusconi il conflitto esisteva, ed era colossale, perché l’Uomo di Arcore era presidente del Consiglio e padre-padrino del primo partito del Paese, mentre da multimiliardario possedeva tre reti televisive private, diverse radio, due quotidiani, concessionarie pubblicitarie, società finanziarie e immobiliari, banche, assicurazioni, squadre di calcio. Silvio-Premier decideva sui business di Silvio-Tycoon. Viceversa, nel caso di tutti gli altri industriali (Elkann compreso) ci sono senz’altro “interessi”, ma non c’è nessun “conflitto”, perché si tratta di soggetti privati che esercitano la loro attività al di fuori della politica.

La destra meloniana finge di non vedere questa differenza sostanziale. E offre agli italiani una narrazione farlocca, riflesso condizionato di un’intolleranza manichea che descrive sempre la dialettica politica secondo lo schema dell’assedio: “noi” contro di “loro”, “Popolo Sovrano” contro “Poteri Forti” (e dopo i noti misfatti sul Teatro di Roma, viene da dire anche “cameratismo” contro “amichettismo”). La conferma di cosa è stato il vero conflitto di interessi in epoca berlusconiana ce l’ha fornita Enrico Mentana, in un’illuminante intervista sul Corriere della Sera di ieri. Il direttore del Tg di La7 racconta che quando nel ’94 si trattò di decidere sulla sua “discesa in campo” il Cavaliere – oltre a Confalonieri, Letta e Dell’Utri – convocò a Villa San Martino i “suoi” giornalisti: oltre a Mentana, i Montanelli, gli Orlando, i Ferrara, i Fede. Nella sua concezione titanica del comando, quelli sì che avrebbero dovuto essere gli agenti del berlusconismo infiltrati nel Quarto Potere.

E per capire cosa resta oggi, di quel conflitto di interessi senza Berlusconi ma con Meloni, basta considerare che i pensosi editoriali usciti sui quotidiani “cognati” della destra, dal Giornale alla Verità, da Libero al Foglio, sono quasi un copia-incolla dell’ukase contro Repubblica diramato dagli apparatciki di palazzo. E anche in questo interessante dettaglio, volendo, si può cogliere l’eco lontana degli ingranaggi micidiali che facevano funzionare la vecchia “macchina del consenso” berlusconiana. Allora c’era la famosa Struttura Delta, che ogni giorno diffondeva il Verbo dell’Unto del Signore ai giornali e ai telegiornali del duopolio Rai-Set. Oggi c’è il “Papello Fazzolari”, che ogni mattina trasmette agli eletti e ai “giornalisti d’area” l’agenda-setting gradita all’esecutivo. Il risultato non cambia. Lo storytelling della Nazione o è positivo, o non è. L’informazione o è addomesticata, o non è. È la “capocrazia”, e non fa prigionieri. Il manganello meloniano non risparmia nessuno dei pochi presidi informativi ancora indipendenti. Da Repubblica al Domani, da Otto e Mezzo a Report: se non li puoi controllare, dileggiali, infangali, bastonali.

Queste regressioni democratiche sono purtroppo tipiche delle forze sovraniste e populiste che hanno governato e governano anche in Occidente. Esistono nell’America trumpiana come nell’Europa orbaniana. Ma alla vigilia di una campagna elettorale che si preannuncia velenosa e avventurosa, vogliamo rassicurare la Sorella d’Italia. Questo giornale ha gli anticorpi. Per più di vent’anni abbiamo retto l’urto del Caimano, mentre i suoi chierici salmodiavano in lode delle sue “gloriose gesta” e i suoi avvocati vaneggiavano in coro sulla sua “persecuzione giudiziaria”. Figuriamoci se oggi ci possono spaventare le intemerate dell’Underdog e i latrati della sua famelica muta di cani.