I problemi, le opportunità e un confronto costruttivo

(di Ernesto Galli della Loggia – corriere.it) – Quando si sbaglia è giusto ammetterlo. E io ho senz’altro sbagliato quando ho voluto racchiudere una questione complessa come il principio d’inclusione in vigore nella scuola italiana in pochissime righe in margine ad una breve recensione (vedi Corriere della Sera del 13 gennaio). Con il bel risultato di apparire agli occhi di molti lettori — diciamo eufemisticamente alquanto prevenuti — fautore del principio opposto, quello dell’esclusione, dando quasi a vedere di augurarmi classi composte unicamente di bei ragazzi «sani», magari anche biondi e con gli occhi azzurri…

La mia intenzione non era affatto quella di auspicare il ritorno alle classi differenziali di un tempo. I ghetti non mi sono mai piaciuti, di qualsiasi natura essi siano. La mia intenzione era ed è, piuttosto, quella di sollevare il velo di retorica che solitamente ricopre il principio d’inclusione così com’esso è praticato nella nostra scuola, attirando l’attenzione sui suoi numerosi aspetti critici. Provo a farlo adesso disponendo dello spazio necessario.

Inclusione, per chi non lo sapesse, significa la presenza nella medesima classe, accanto agli altri allievi, dei cosiddetti allievi con Bes (sta per Bisogni Educativi Speciali): una vasta categoria che comprende i disabili con disabilità lieve media o grave: ad esempio, dai soggetti affetti in vario grado da dislessia o disgrafia medicalmente certificata a quelli con forme di pronunciata disabilità sensoriale o intellettiva; nonché gli allievi di origine straniera non parlanti la nostra lingua.

Per ogni classe che si trovi in questa condizione è prevista per gli allievi con disabilità Bes la presenza per un massimo di 18 ore settimanali — il monte ore di lavoro standard nella scuola — di un cosiddetto «insegnante di sostegno» (ma 18 ore nella medesima classe sono previste solo se questa ospita un caso molto grave, se no ci si limiterà a un semplice spezzone di tale monte ore).

Due osservazioni. La prima: nella maggioranza dei casi l’insegnante «di sostegno» non ha alcuna preparazione specifica se non alcune vaghe nozioni d’ordine generalissimo apprese in un corso annuale. Che tipo di «sostegno» potrà quindi assicurare se non quello genericissimo di una semplice presenza/assistenza? Ma non solo: sempre nella maggioranza dei casi (ma direi nella grande maggioranza dei casi) gli insegnanti «di sostegno» ambiscono in realtà a lasciare il loro ruolo per inserirsi nel ruolo normale d’insegnamento: ciò che una legge dà loro diritto di chiedere dopo un triennio. Accade così che sia diventata prassi corrente che chi ambisce di entrare nell’insegnamento decida di aggirare l’abituale difficoltà dell’accesso in ruolo battendo la strada obliqua di questa sorta di «ope legis». Si realizza cosi un continuo processo di avvicendamento/assunzione di insegnanti «di sostegno», e di conseguenza anche un continuo aumento di insegnanti curriculari indipendentemente da ogni constatato bisogno di essi e da ogni concorso. Ciò che spiega, tra l’altro, come mai attualmente di fronte a 800 mila circa insegnanti si contino ben 160 mila insegnanti «di sostegno» e perché mai i sindacati vigilino con occhiuta attenzione il meccanismo della trafila ora descritta.

I problemi tuttavia non finiscono qua. Pur ammettendo che una classe abbia a propria disposizione un insegnante «di sostegno» per tutte le ore prescritte dall’orario di lavoro, ma considerando altresì che l’orario scolastico medio previsto per la scuola elementare e media è invece di circa 24-40 ore settimanali: come verranno riempite le ore che rimangono scoperte? È facile immaginare che semplicemente si farà a meno della presenza dell’insegnante in questione. Con ciò svelando, però, la vera sostanza dell’inclusione che in pratica significa la semplice permanenza in aula dell’alunno disabile, non accompagnata in realtà da alcun intervento significativo che vada al di là della suddetta permanenza.

Si dirà che ciò è già qualcosa. Può darsi. Di sicuro è più di qualcosa per le famiglie. Ma è lecito o no chiedersi in che senso tutto questo rientri tra i compiti propriamente educativi della scuola o non finisca inevitabilmente per snaturarli, per farli passare alla fine in seconda linea, ad esempio sollecitando indirettamente un generale accertamento del merito all’insegna dell’indulgenza? Ed a chi sostiene che però ciò ha il merito di educare alla tolleranza e alla convivenza con la «diversità» è lecito chiedere come mai, allora, tra gli italiani giovani e giovanissimi ogni anno stiano crescendo a vista d’occhio gli episodi di molestie, di «body shaming», di bullismo, di aggressività verso i propri coetanei prendendo a pretesto il più delle volte proprio un dato della loro fisicità? E infine: è proprio sicuro che ad esempio, perlomeno nei casi gravi di disabilità intellettiva, di disabilità motoria, piuttosto che essere immersi in un ambiente totalmente altro assistiti da un incompetente non gioverebbe di più l’inserimento in un’istituzione capace di prendersi cura di simili casi in modo più appropriato e scientificamente orientato? Perché mai il solo porsi una simile domanda deve essere equiparato quasi a una pagina del Mein Kampf? Un tempo non era forse considerata un’ipocrisia, una finta giustizia, trattare in modo eguale ciò che è diseguale? Cosa è cambiato nel frattempo?

Come si vede le domande si succedono alle domande. E dunque ancora: è assolutamente ragionevole pensare che per un bambino bengalese che non sa una parola d’italiano la via migliore per apprendere la lingua sia quello di immetterlo in una classe di coetanei italofoni. Ma se si tratta di un bambino solamente: se si tratta invece di dieci bambini (come ormai tanto spesso in molte zone del nostro Paese) è sicuro che valga la medesima cosa? O non accadrà forse che quei dieci bambini bengalesi saranno tentati di continuare a parlare bengalese tra di loro piuttosto che attaccare discorso con un loro compagno italofono? E non sarebbe allora meglio che i bambini di origine straniera prima di fare ingresso in una qualunque classe di una nostra scuola seguissero ad esempio per tre mesi un corso intensivo d’italiano? Per quale assurda ragione porre un simile problema significa apparire quasi un fautore dell’apartheid?

Perché, insomma, in Italia il discorso sull’istruzione suscita in un modo così spasmodico un immediato riflesso di faziosità, di intolleranza, di cieca convinzione nell’assoluta bontà delle proprie ragioni e nel carattere demoniaco di quelle altrui? Perché ogni tanto non pensiamo ad esempio che tutte le regole a proposito di alunni disabili e stranieri di cui si è detto finora sono applicate solo in Italia, Spagna e Grecia ma che in tutti gli altri Paesi dell’Unione le regole sono diverse, spesso molto diverse dalle nostre? Come mai? Sono tutti reazionari?

Ho scritto molto, troppo. Ma l’ho fatto non tanto per amore della verità di ciò che penso: ho voluto farlo per Dario, un giovane e carissimo amico napoletano, disabile, protagonista di un brillante itinerario scolastico e universitario, che si sta avviando ad una carriera di studioso che, sono sicuro, sarà ancor più brillante.