(Giuseppe Imperatore – lafionda.org) – Kant riteneva, non avendone esperienza diretta, che i modelli democratici non conoscessero la guerra né come strumento di offesa né come strumento di regolazione dei rapporti esterni, quindi tendessero naturalmente verso il compromesso e la pace perpetua.

Nei fatti, invece, le democrazie, anche le più avanzate, hanno promosso opere di polizia internazionale ed hanno esportato la guerra. Tuttavia queste hanno sempre trovato una giustificazione, uno schermo entro cui riconoscerla ed etichettarla nel rispetto di quei valori etici e giuridici che i sistemi democratici occidentali riconoscono ad ampio consenso.

Forse si è trattato sempre e soltanto di una narrazione utile ad evitare contrasti e disconoscimenti dall’interno che tuttavia ha funzionato alquanto bene.

Le missioni portate avanti dall’Occidente sono servite ad esportare modelli di civiltà, democrazia e libertà  sconosciuti agli Altri, si è parlato piuttosto di una guerra dei buoni contro i cattivi e, non sempre a torto, è arrivata come risposta mirata ed eccezionale ad attacchi terroristici o invasioni territoriali.

Ora, la dilagante violenza della repressione israeliana nei confronti di un intero popolo, non di una cellula terroristica, assume le sembianze di un eccidio non più facilmente giustificabile sul piano teorico-concettuale.

E la sospensione dello stato di diritto nella violenza non ben si congegna con un sistema liberal-democratico seppur nell’emergenza della lotta al terrorismo, anche se si badi bene la violenza non è mai completamente espunta nemmeno nel più avanzato sistema di governo, ma viene incanalata, regolata e normata.

La repressione dell’atto terroristico dovrebbe dunque trovare la propria disciplina nel diritto penale interno e non nella guerra totale la sua soluzione.

L’intricata attività di intelligence dovrebbe farla da padrone in queste occasioni, mentre la guerra dovrebbe rimanere confinata ad extrema ratio  esistenziale, a cui non bisogna ricorrere sic et simpliciter quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali seppur nella loro complessità.

Pertanto una tale risposta mette alle strette le democrazie occidentali non più in grado di sorreggere la loro narrazione egemonica.

Ad essere messo in discussione è l’ethos democratico, quell’insieme di valori pregnanti su cui il moderno si fonda, quel senso comune accettato a maggioranza, ovvero quella adesione acritica e a-razionale ad un ben definito sistema valoriale.

Si è tentato comunque di ripercorrere quello stesso racconto invalso in tante altre occasioni, tuttavia questa volta non ha fatto breccia, vi è stata una riluttanza generale verso l’appiattimento culturale e politico imposto dall’alto.

Eppure gli elementi vi stavano tutti: il vile attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, lo scontro tra un’arretrata autocrazia orientale e un’avanzata democrazia occidentale (anche se territorialmente non tale), si trattava di un bel mix con cui avallare una legittima risposta d’Israele.

Tuttavia la violenza della risposta, gli attacchi contro obiettivi civili, la ghettizzazione della popolazione palestinese a Gaza, il controllo strategico di ogni aspetto geo-economico, la fuga forzata imposta senza alcun corridoio umanitario, l’estensione del conflitto all’intero medioriente, la sempre maggior militarizzazione dell’area da parte dei governi guidati da Netanyahu, la ferocia delle parole di Gallant e l’abbandono di una qualsiasi dialettica di mediazione da parte di Cohen,  hanno decorso per una presa di coscienza ben diversa da buona parte della comunità internazionale, che poi è già per ¾ ostile a quello che ancora si considera a torto il centro del mondo globalizzato.

Nonostante l’attività in apologia della guerra portata avanti dagli organi di stampa, che sono arrivati perfino a negare la gravità della situazione dei civili a Gaza davanti ad immagini atroci che tutti abbiamo avuto, nostro malgrado, la possibilità di vedere, nonostante la particolare posizione assunta da partiti politici che mai hanno preso realmente le distanze dagli orrori perpetrati dai nazifascisti e che oggi divengono paladini della questione sionista in nome di un’islamofobia non tanto differente dall’antisemitismo di un secolo fa, le voci di dissenso sono state molto più numerose che in altre occasioni, non solo singoli individui o pochi intellettuali, ma manifestazioni di massa, a cui si sono addizionate le aspre critiche mosse dalla stampa israeliana stessa e dal popolo ebraico sparso sul pianeta, le chiare posizioni espresse dai capi di Stato di molti Paesi, si pensi a titolo esemplificativo alla Repubblica d’Irlanda e al Brasile, le denunce di reiterate violazioni dei diritti umani da parte di agenzie e organizzazioni internazionali e, da ultimo, le dichiarazioni condivisibili del Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres.

Tuttavia la soluzione non è a portata di mano e troppo tardiva ed evanescente appare il propagandistico motto, mai avallato prima, di “due popoli, due nazioni”, soprattutto perchè, se non si interviene in fretta, uno dei due popoli scomparirà dalla terra. E parimenti improbabile apparirebbe una conviviale convivenza tra arabi e israeliani, a meno che la nuova situazione di fatto non si fondi su un reciproco timore di non rimanere impuniti davanti alla comunità internazionale non più silente, e non solo a chiacchiere, in cui chi sgarra rischia di rimanere definitivamente fuori dal circuito internazionale.

In realtà, poi, la Palestina non ha mai fatto parte di questo circuito, dunque perché oggi considerarlo Stato sovrano davanti alle sue responsabilità e alla debolezza del governo di Abu Mazen, quando gli è stato sempre negato questo status?

E poi sarebbe opportuno che entrambe le parti rimanessero consapevoli che l’eventuale sostegno dell’oggi non vale necessariamente per il domani, questo la storia ci insegna, e i cambiamenti possono essere molto repentini.

Anche se Israele non è l’Ucraina, il tempo dell’incondizionato appoggio potrebbe finire, allo stesso modo anche dalla parte palestinese, i Paesi arabi, così diversi ed in costante conflitto tra di loro, potrebbero optare per soluzioni opportunistiche che nuocerebbero alla causa di quel martoriato popolo.

Infine si rammenti che il diritto internazionale sa come mostrare il suo volto mostruoso, conosce la guerra non solo come extrema ratio, ma anche come prima ratio, fa della guerra il massimo strumento di manifestazione dell’esistenza sovrana, legittima la vendetta come difesa, avalla atrocità sul piano normativo, però è anche dialogo, cooperazione, relazione multilaterale, diplomazia e oggi non si può che passare da questa seconda via o almeno tentare di percorrerla, onde evitare una reazione a catena che provochi il momentaneo, o forse definitivo, tramonto di quell’assetto mondiale che abbiamo conosciuto dopo i conflitti bellici, caldi o freddi che siano, del secolo breve.