Il capomafia di Castelvetrano era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila

È morto Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa Nostra aveva 61 anni

(di Giovanni Bianconi – corriere.it) – Matteo Messina Denaro è morto oggi per le conseguenze legate a un tumore al colon al quarto stadio. Il capomafia di Castelvetrano era nel reparto per detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila. L’arresto, dopo 30 anni di latitanza, risale al gennaio di quest’anno.

Ha perso la sua sfida con lo Stato per solo otto mesi, ma l’ha persa. Otto mesi trascorsi al «carcere duro», nella cella del penitenziario dell’Aquila e poi in quella dell’ospedale cittadino, a causa del tumore che il 16 gennaio ne aveva provocato la cattura e ora l’ha ucciso.

«Mi avete preso per la malattia, senza non mi prendevate», aveva detto in tono provocatorio al procuratore di Palermo de Lucia e al suo vice Paolo Guido, nell’interrogatorio di febbraio, dopo l’arresto. «Intanto l’abbiamo presa», replicò a tono il procuratore, rivendicando il risultato finale di una partita giocata da Matteo Messina Denaro per morire in latitanza come suo padre Francesco, il boss di Castelvetrano ricercato dal 1990 e restituito cadavere allo Stato e ai suoi familiari nel 1998.

Suo figlio Matteo, che ne raccolse l’eredità di capomafia, avrebbe voluto emularlo anche in questo ed è rimasto un fuggiasco per quasi trent’anni. Non un record, ché ad esempio Bernardo Provenzano fu arrestato 43 anni dopo il primo ordine di cattura, ma lui era rimasto l’unico boss in libertà tra quelli condannati per le stragi del 1992 e 1993: Giovanni Falcone e sua moglie, Paolo Borsellino, gli agenti delle scorte e poi le vittime innocenti uccise e ferite tra Firenze, Milano e Roma.

Uno smacco che lo Stato non poteva accettare, e che è riuscito a evitare sul filo dell’ultima mossa, facendo sì che l’imprendibile padrino di Castelvetrano trascorresse in prigione almeno il tratto finale della sua vita. Senza ottenere da lui altro che l’orgogliosa ostentazione di non volersi pentire.

«Io non ho mai infamato nessuno e morirò senza infamare nessuno, questo è Messina Denaro», ha proclamato davanti al giudice Alfredo Montalto in un altro faccia a faccia giudiziario, un mese dopo l’arresto. «Io non mi farò mai pentito», aveva anticipato tre giorni prima ai pubblici ministeri, con il procuratore De Lucia pronto a raccogliere la sfida: «L’ho capito, ma io le ho chiesto di collaborare?». «No». «E allora?». «Io la devo ringraziare perché siete stati di parola, lei mi ha visto e ha detto “sarò curato”, e io detto grazie, ed è stato vero così». Fino all’ultimo respiro, con il Servizio sanitario nazionale che s’è preso cura di lui sia da ricercato, quando è stato operato e sottoposto a terapie specialistiche sotto falso nome, sia da carcerato, raccogliendo da ultimo la richiesta del mafioso di non essere rianimato in caso di coma.

Negli ultimi tempi, tuttavia, quando ha capito che la sabbia nella clessidra si stava esaurendo, il capomafia ha cominciato ad avanzare richieste, insistendo per avere tutto ciò che gli spettava secondo la propria interpretazione di leggi e regolamenti; non più il boss altero e orgoglioso di sé, ma un detenuto qualunque che intravede la fine.

Negli scritti affidati a una sorta di diario ritrovato nel suo covo a Campobello di Mazara (quaderni pieni di pensieri e parole elaborate nel corso degli anni), aveva annotato fra l’altro: «Ho sempre pensato che sarebbe bello sapere quando è la mia ultima notte sulla terra piuttosto che venire investito da un’auto o qualcosa del genere». Meglio una morte consapevole e in qualche modo attesa, che improvvisa e inaspettata. Forse per avere il tempo di accomiatarsi dalla famiglia, che è sempre stata centrale nella vita di Messina Denaro. Alla quale da ultimo ha voluto aggregarsi la figlia Lorenzaavuta in latitanza ma mai incontrata prima della cattura, che dopo i colloqui dietro le sbarre ha chiesto e ottenuto di portare il cognome del padre.

Famiglia di sangue ma anche di mafia, nella quale quasi nessuno è rimasto immune da indagini o arresti. A parte il patriarca che riuscì a evitare il carcere, sono passate da una cella (o ci sono ancora) l’unico fratello di Matteo e due sorelle su quattro di Matteo, quattro cognati su quattro, e poi nipoti, cugini e parenti vari: tutti inquisiti per complicità con Cosa nostra e aver protetto la latitanza dell’erede di cui conservano nelle case la foto accanto a quella del capostipite defunto.

Matteo invece era vivo e imprendibile, con l’intera famiglia votata a far sì che tale rimanesse. Ci sono riusciti finché proprio una delle sorelle, Rosalia, non ha inconsapevolmente offerto ai carabinieri del Ros la traccia per arrivare alla clinica palermitana La Maddalena, con quel foglietto nascosto dentro la gamba di una sedia dove aveva trascritto la cartella clinica del fratello malato. Lì s’è infranta la missione del boss e del suo nucleo familiare, immolato a garanzia dell’imprendibilità del capomafia della provincia di Trapani.

Ruolo che Messina Denaro ha rivestito senza confonderlo con quello di “capo dei capi” di Cosa nostra già occupato da Riina, anzi tirandosi fuori quando gli altri boss l’hanno interpellato per ricostituire la Cupola, forse temendo lo scatenarsi di conflitti (anche armati) che non voleva più affrontare.

Pur essendo rimasto un fedele alleato dei corleonesi – nelle guerre di mafia combattute negli anni Ottanta e primi Novanta, oltre che nella strategia terroristica dispiegata con gli attentati del ’92 e del ’93, dov’è stato prima soldato e poi stratega – Matteo s’è infatti successivamente allineato sulla strategia della “sommersione” adottata da Bernardo Provenzano, dopo l’arresto di Riina e dei suoi gregari più fedeli.

Con l’altro boss corleonese il padrino di Castelvetrano ha avuto un rapporto improntato a rispetto e cordialità, come si legge nelle lettere ossequiose ma fiere in cui chiedeva il suo intervento per risolvere questioni tra clan contrapposti; sebbene negli interrogatori abbia negato di averlo mai conoscerlo «visivamente», cioè di persona, ma solo attraverso la tv. Accampando una versione abbastanza surreale per giustificare la corrispondenza dove lui e Provenzano parlavano di affari, come fosse stato costretto a rivolgersi a un quasi-estraneo: «Quando si fa un certo tipo di vita, io latitante accusato di mafia, lui latitante accusato di mafia, dove si va?».

Matteo Messina Denaro è morto con diversi ergastoli sulle spalle, inflittigli per almeno quattordici omicidi più le stragi, ma fino alla fine ha sostenuto di aver conosciuto la mafia solo dai giornali. Come hanno sempre fatto i veri mafiosi. Ammettendo solo che il suo unico scopo era fare soldi. Muovendosi tra l’Italia e l’estero, dove ha raccontato di essere andato spesso a partire dal 2006, dopo l’arresto di Provenzano e la scoperta dei pizzini che gli aveva inviato. Scritti al computer. Quel computer che gli inquirenti ancora stanno cercando, non accontentandosi della contabilità delle spese correnti appuntata sui fogli sparsi da lui e sua sorella. Ma il capomafia ha negato di averlo mai usato; così come ha negato di avere la disponibilità di altri covi oltre quelli scoperti (che invece magistrati e investigatori continuano a cercare: lì devono essere custodite le carte più importanti e segrete che probabilmente gli hanno garantito protezione durante una latitanza così lunga, finita solo a causa della malattia). Aggiungendo però: «Queste cose io, qualora ce le avessi, non le darei mai, non ha senso per il mio tipo di mentalità».

Come i soldi. Dove li ha nascosti? Come li ha investiti, e tramite chi? «Se ho qualcosa non lo dico, sarebbe da stupidi», ha risposto al giudice. Segreti destinati a rimanere tali, forse, ancor più ora che il boss è morto.

È vero che aveva con sé l’archivio di Riina, portato in salvo dal covo non perquisito dopo l’arresto del gennaio ’93 da altri mafiosi che si premurarono di dipingere i muri per evitare che venissero rilevate le impronte digitali? È un’altra domanda che non ha trovato risposta, nemmeno dopo la cattura di Messina Denaro. Se quell’archivio esiste e lo teneva lui, ora sarà ancora più difficile trovarlo. Il boss ha continuato a negare tutto, ma sempre a modo suo. Dicendo ai pm di non essere mafioso ma di «conoscere la mentalità dei mafiosi» per via dell’ambiente dove è nato e cresciuto; se lo fosse stato – ha aggiunto – a casa sua gli inquirenti non avrebbero trovato i “pizzini” su cui stanno ancora lavorando e che hanno già portato ad alcuni arresti, ma «solo le stampe al muro e i mobili». Come accadde nel ’93 nel covo di Riina, per l’appunto. «Quindi lei ne sa qualcosa di pittura dei muri prima e dopo gli arresti?», hanno provato a incastrarlo gli inquirenti, cercando di carpire qualcosa su quella vicenda ancora misteriosa. «No, non so niente», s’è subito chiuso a riccio.

Un modo per parlare senza dire nienterimanendo custode dei segreti di mafia – sui delitti eccellenti, le stragi, i rapporti con la politica e con il potere, le protezioni di cui ha goduto – anche dopo aver perso la sfida con lo Stato. Sia pure per i soli otto mesi di vita che gli erano rimasti.