Francesco, a Marsiglia, fa chiarezza sui termini della questione. E ricorda che esiste un diritto a emigrare

Marsiglia, 23 settembre: papa Francesco saluta i fedeli

(di Chiara Saraceno – repubblica.it) – Nella grande confusione che c’è attorno all’immigrazione, le parole del Papa a Marsiglia hanno fatto chiarezza sui termini della questione. Rivolgendosi ai francesi, ma anche a tutti gli europei, in primo luogo ha ricordato che esiste un diritto ad emigrare.

È anche, aggiungo io, sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata già nel 1948 dalle neonate Nazioni Unite, che all’articolo 13, secondo comma, recita: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese”. Mentre l’articolo 14 sancisce il diritto d’asilo per chi sia oggetto di persecuzione nel proprio Paese.

In secondo luogo, il Papa ha ricordato che chi rischia la vita in mare (o in pericolose traversate di deserti, montagne, foreste) «non invade, ma cerca accoglienza, cerca vita».

Anche in questo caso si può richiamare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che all’articolo 3 afferma: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”.

Infine ha ribadito quanto vanno ripetendo da anni gli analisti più attenti: «Il fenomeno migratorio non è tanto un’urgenza momentanea, sempre buona per far divampare propagande allarmiste, ma un dato di fatto dei nostri tempi, un processo che coinvolge attorno al Mediterraneo tre continenti e che va governato con sapiente lungimiranza, con una responsabilità europea».

Non una semplificazione buonista del fenomeno, dunque, ma la sua collocazione nella complessità. Ciò non significa sottovalutare la pressione insostenibile che può crearsi in luoghi come Lampedusa, o ai confini nord-orientali per l’arrivo di migliaia di persone tutte insieme, anche se a piccoli gruppi.

Ma si tratta di una insostenibilità temporanea, che può essere contrastata con un po’ più di capacità di previsione (c’era da aspettarsi che aumentassero gli arrivi dopo il terremoto in Marocco e l’alluvione in Libia) e attrezzandosi in anticipo.

Non sono i numeri di per sé ad essere insostenibili, nonostante l’aumento notevole di quest’anno. Lo diventano se vengono, appunto, affrontati in modo emergenziale e non come un fenomeno strutturale, che perciò richiede risposte strutturali e cooperative, tra Paesi di partenza e di arrivo così come tra questi ultimi e all’interno di ciascun Paese.

Per riprendere le parole di papa Francesco, «la soluzione non è respingere, ma assicurare, secondo le possibilità di ciascuno, un ampio numero di ingressi legali e regolari, sostenibili grazie a un’accoglienza equa da parte del continente europeo, nel contesto di una collaborazione con i Paesi d’origine».

Invece di pagare Paesi extraeuropei perché facciano per noi la guardia, trattenendo a forza chi vuole partire, dovremmo rafforzare i corridoi umanitari per permettere a chi ha diritto all’asilo di arrivare in modo sicuro ed insieme garantire ai Paesi da cui partono i migranti economici un più ampio numero di ingressi legali, anche accompagnandoli con forme di sostegno in loco per la formazione nelle competenze richieste dal nostro mercato del lavoro. È ciò che chiedono anche molti imprenditori nostrani.

E invece di minacciare, in violazione dell’articolo 9 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, di rinchiudere chiunque arrivi senza permesso in quelle che si configurano come vere e proprie prigioni, a meno che non abbiano 5.000 euro da pagare sull’unghia come cauzione, occorre tornare a investire nell’accoglienza diffusa, favorendo l’integrazione e investendo nel capitale umano di chi arriva. Anche se dovesse essere rimandato nel Paese d’origine, non avrà perso né la sua dignità di persona né il suo tempo.

E naturalmente, occorre anche investire seriamente in aiuti allo sviluppo, che invece hanno visto un impegno decrescente, nonostante le molte parole e promesse.

Tutto ciò non eliminerà gli ingressi senza permesso. Perché il bisogno, la paura, o il desiderio di una vita migliore sono molle incomprimibili. Noi italiani, con il nostro passato di popolo di emigrati, dovremmo saperlo. Ma renderà il fenomeno più gestibile, più civilizzato, più passibile di contrattazione e cooperazione con i Paesi di partenza, o almeno con alcuni di essi.

D’altra parte, la sconfortata ammissione della presidente del Consiglio — «abbiamo lavorato moltissimo, ma i risultati non sono quelli che speravamo» — è una implicita presa d’atto che il pugno duro, le minacce e l’approccio emergenziale non pagano. Perché allora continuare pervicacemente in questa direzione, da un decreto di emergenza all’altro?