Nel suo editoriale del 4 agosto sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia scrive che non c’è paragone tra la Prima e la Seconda Repubblica. Il confronto, secondo della Loggia, va tutto a favore della Prima […]

(DI MASSIMO FINI – ilfattoquotidiano.it) – Nel suo editoriale del 4 agosto sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia scrive che non c’è paragone tra la Prima e la Seconda Repubblica. Il confronto, secondo della Loggia, va tutto a favore della Prima “per livello culturale, per preparazione, per carattere, per capacità di discussione e di direzione, e vorrei aggiungere per la consapevolezza del significato e quindi della dignità del proprio ruolo”.
Per una volta sono d’accordo con Monsignore. Del resto, anno più, anno meno, siamo della stessa generazione, possiamo avere, e abbiamo, posizioni diversissime su tutto, ma abbiamo vissuto gli stessi tempi e i fondamentali restano comuni. È la stessa sensazione che provo con altri intellettuali con cui ho spesso battagliato che hanno più o meno la mia età, Paolo Mieli per fare un esempio tra i tanti. La Prima Repubblica l’abbiamo vissuta in presa diretta, la Seconda, con l’età che avanzava, ci siamo più spesso limitati a osservarla.
A quello che scrive Ernesto aggiungerei che i protagonisti della Prima Repubblica avevano il senso e il rispetto delle Istituzioni. Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani si sono sempre difesi nel processo e non hanno mai affermato di essere vittime di una “magistratura politicizzata”. Oggi anche una qualsiasi Daniela Santanchè si dichiara vittima. Tanti anni di berlusconismo non sono passati senza colpo ferire, hanno tolto agli italiani, a tutti gli italiani non solo ai politici, quel poco di senso della legalità che gli era rimasto. C’era corruzione nella Prima Repubblica? Sì, ma limitata a fatti ben delineati. E fu Giacomo Mancini il primo a violare quello che era un dogma, il dogma dell’onestà, per i borghesi se non altro perché l’onestà dava credito (adesso in quel mondo l’onestà è diventata un disvalore perché una minaccia agli interessi del capitale), per il mondo contadino dove violare la stretta di mano significava essere messi al margine della comunità, per il mondo proletario che aveva una sua etica seppur opposta a quella dei borghesi. Non a caso Mancini fu prodromo di Bettino Craxi, che pure si diceva vittima della “magistratura politicizzata” invece che dei crimini che aveva commesso, e Craxi fu prodromo di Berlusconi. È incredibile, e doloroso, il patrimonio che il Partito socialista ha scialacquato nel giro di pochi decenni. E, a mio avviso, quella socialista rimane l’idea più bella perché cerca di coniugare una ragionevole uguaglianza sociale con i diritti civili, mentre il comunismo anche nei rari casi in cui ottiene un’uguaglianza sociale lo fa a scapito dei diritti civili.
Oggi viviamo in un immenso “mondo di mezzo” dove non si riesce mai a capire se la persona che ti sta davanti è una persona onesta o un mascalzone. Non voglio dire con ciò che tutti i politici di oggi siano corrotti o corruttibili, non lo è sicuramente Giorgia Meloni che con il suo “io non sono ricattabile” chiuse la bocca a Berlusconi che di ricatti era maestro, ma non mi sentirei di dire la stessa cosa per i componenti del suo governo e sottogoverno. Ma anche la simpatica Meloni, oggi un po’ meno simpatica perché sembra che il potere le abbia dato alla testa perché o si fa quello che dice lei o nisba, sconta un gap culturale che si è venuto allargando nel corso degli anni. Lasciando perdere i mitici Einaudi e De Gasperi, i rappresentanti della Prima Repubblica erano uomini di cultura. Lo era Andreotti, lo era Fanfani, che fu docente di Storia economica durante il fascismo alla Cattolica di Milano e nel dopoguerra alla Sapienza di Roma, lo era Aldo Moro di un’intelligenza sottile, forse troppo sottile (“le convergenze parallele”) che rovinò la sua figura con le imbarazzanti, chiamiamole così per carità di patria, lettere dal carcere delle Br, lo era il bifido Togliatti, lo era Giorgio Almirante che aveva anche il vantaggio di provenire da una famiglia di teatranti (la compagnia Almirante-Rissone, che sfornò, tra gli altri, il giovanissimo Vittorio De Sica).
Noi, intendo della Loggia, me stesso e tutti gli intellettuali nati a cavallo fra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni successivi, non siamo stati capaci – o per meglio dire: non eravamo in grado – di fermare questa deriva anche perché la cultura italiana è stata soggiogata, in tutto, anche nella musica e nel cinema, da quella americana, dalle serie, dai podcast. Non che in Italia non ci siano ottimi registi, ma sono sommersi da un eccesso di offerta per cui si fa fatica a individuarli.
E così noi, stanchi, stanchissimi, nel novembre della nostra vita, guardiamo immalinconiti, disillusi e sempre più impotenti un’Italia ridotta in pezzi.
La prima Repubblica diede all’Italia crescita reale, un sistema bilanciato tra pubblico e privato, garanzie sull’imprenditoria e la proprietà privata, controllo strategico sugli asset, e inoltre scala mobile, ascensore sociale, riscatto sociale, i figli dei contadini diventavano magistrati e primari d’ospedale, università gratuita, scuola di buon livello, modello di sanità pubblica unica al mondo, dibattito pubblico acceso sui temi del progressismo reale, non la fuffa, sindacati forti, opposizioni vere che portavano a casa risultati come lo statuto dei lavoratori e il nuovo diritto di famiglia. E ora che abbiamo, il colonialismo americano, impoverimento, ritorno alle caste, liberismo autentico, immobilismo sociale, classe politica scadente che non ti puoi permettere nemmno di ipotizzare soluzioni alternative.
Aldo Moro, il tempo che passa ne ingigantisce la figura
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La prima repubblica fu il peggiore sistema democratico che potesse esistere. Solo gli amanti delle stragi, affibbiate a un fantomatico fascismo in agguato, e un terrorismo rosso di cui nessuno si assumeva la paternità anche se protetto dalla cosiddetta intellighenzia rossa, possono rimpiangere quel tempo.
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Fu il periodo in cui si implementava un progetto democratico e un sentimento di partecipazione, erano anni di grande fermento ideologico nella contrapposizione della lotta di classe con i suoi estremismi ma dietro molti fatti c’è sempre stato lo zampino del padrone quando si andava troppo fuori dal consentito, allora si destabilizzava in rosso o in nero bastava solo individuare l’area più recettiva, oppure si interveniva sulla persona, bastano 2 nomi su tutti. Chi preferisce il periodo atttuale di democrazia fasulla, del pensiero unico, appiattimento del dissenso e della partecipazione con l’astensionismo al 60%, può tenerselo, si trabilii con se stesso senza azzardare collegamenti temerari con l’amore per le stragi che è indecente
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Grazie Massimo, avanti
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Fu il periodo di una falsa democrazia. In quel periodo non c’era alcuna possibilità di alternanza tra portatori di interessi diversi. La sezione italiana del PCUS non aveva il diritto di prendere il potere perché l’ Italia, secondo gli accordi di Jalta, era stata assegnata alla zona di influenza americana e gli USA non avrebbero mai consentito che si trasformasse in territorio sovietico. Questo mancato, ma impossibile ricambio, fu la causa del terrorismo rosso, delle stragi di stato e di tangentopoli.
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Leggi e studia
L’esatta interpretazione degli accordi di Yalta
Caro Montanelli, Si continua a ripetere che senza De Gasperi e amici, nel 1948, saremmo finiti, nella migliore delle ipotesi, accanto alla Jugoslavia. Lei, l’ha ripetuto parecchie volte, di questa ipotesi è un convinto assertore. A me però qualche dubbio rimane. Tre anni prima del 1948, dal 4 all’11 febbraio. Churchill, Roosevelt e Stalin s’erano incontrati a Yalta, in Ucraina, dove avevano firmato un patto che definiva le reciproche zone d’influenza nel mondo. L’accordo fu messo immediatamente in atto e si protrasse, con maggiore o minore «intensità», fino – si può dire – alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Si aggiunga che Churchill, già nel 1946, aveva parlato di «cortina di ferro da Stettino a Trieste». Come si può allora sostenere che la vittoria del fronte popolare avrebbe potuto mettere in discussione il famigerato patto? Non era forse l’Italia circondata, da Trieste a Genova, dalle forze navali alleate? Lorenzo Milanesi
Caro Milanesi, Mi sembra che degli accordi di Yalta, lei non dia un’interpretazione esatta. È vero che poi ognuno dei tre firmatari gli attribuì il significato che più faceva comodo a lui. Ma ci furono un paio di punti sui quali i patti erano chiari, e infatti vennero rispettati. Uno di questi punti riguardava la linea di demarcazione fra le due zone di occupazione: quella sovietica, e quella occidentale. E sappiamo tutti come vennero fissate perché l’assetto che ne scaturì è quello poi durato quasi cinquant’anni, fino alla caduta del muro di Berlino. I punti di frizione erano quelli ad occupazione quadripartita dei tre alleati occidentali […] e i russi, come Berlino, Vienna e i territori circostanti. Ma, anche se punteggiato di varie crisi […], l’assetto resistè. L’altro punto, su cui di contestazioni non ce ne furono perché non potevano essercene, era che appena i Paesi occupati, sia dell’una sia dell’altra parte, avessero potuto fornire le necessarie garanzie di ordine pubblico, avrebbero deciso con libere elezioni il regime da darsi, che i vincitori s’impegnavano a rispettare ponendo fine allo stato di occupazione.
Da quel momento, caro Milanesi, il governo americano fece sapere a quello italiano, e sia la diplomazia sia la stampa di quel Paese non fecero che ripetere e ribadire, che se l’Italia sceglieva il regime democratico, poteva contare sugli aiuti economici americani […] per quanto riguardava i suoi immediati bisogni e la ripresa della sue economia, nonché sulle forze armate americane per quanto riguardava la sicurezza dei suoi confini; ma se attraverso libere elezioni l’Italia decideva di trasferirsi nel campo del blocco sovietico […], non avrebbe incontrato nessun ostacolo da parte dell’America, ma avrebbe dovuto rinunziare ai suoi aiuti. Come in concreto andarono le cose, lo sanno tutti, e dovrebbe ricordarselo anche lei. In nessuno dei Paesi europei piantonati dall’Armata Rossa i comunisti raggiunsero la maggioranza assoluta, e quindi dovettero andare al governo insieme o ai socialdemocratici o ai partiti agrari. Ma si contentavano di poco: del Ministero dell’Interno che comportava la direzione della Polizia. Poco dopo socialdemocratici e agrari venivano emarginati dal potere, e dentro il partito comunista cominciavano le «purghe». Questo avvenne dovunque l’Armata Rossa avesse piantato la sua bandiera. E lei è il solo – spero – a dubitare che sarebbe avvenuto anche in Italia se nel ’48 il «Fronte popolare» a guida Togliatti avesse vinto. Certo, perché non vincesse, l’America ci fu prodiga di aiuti: rifornimenti, prestiti, brevetti. Ma non di minacce. Il suo messaggio fu sempre il medesimo: se il vostro popolo sceglie un altro destino, è libero di farlo. Ma non coi nostri soldi. E ci sarebbe mancato anche questo: che ci trasferissimo nel campo sovietico coi soldi americani. Eppure ci fu qualcuno che lo pensò. Ma non Togliatti, caro Milanesi. Il quale […] fu ben contento di non diventare un luogotenente di Mosca costretto ad eseguire gli ordini del Cremlino, come successe in tutti i Paesi del Patto di Varsavia (meno la Jugoslavia che, non essendo occupata da truppe sovietiche, si ribellò). Questo Togliatti non lo disse ma lo pensò. Il suo successore Berlinguer non solo lo pensò; lo disse pure, ma quando il muro di Berlino cominciava a tentennare.
Link: https://www.corriere.it/solferino/montanelli/00-12-11/01.spm
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