Dopo le voci che si sono levate quasi in coro per difendere la libertà di parola e soprattutto il diritto di critica, Carlo Rovelli prenderà parte come ospite d’onore alla Fiera Internazionale del Libro che si terrà a […]

(DI DONATELLA DI CESARE – ilfattoquotidiano.it) – Dopo le voci che si sono levate quasi in coro per difendere la libertà di parola e soprattutto il diritto di critica, Carlo Rovelli prenderà parte come ospite d’onore alla Fiera Internazionale del Libro che si terrà a Francoforte nel 2024, perché nessuno meglio di lui potrebbe rappresentare in questo frangente la cultura italiana. Ricardo Franco Levi, commissario della Fiera, è tornato indietro sui suoi passi nel giro di qualche ora, dopo quell’infelice lettera evidentemente scritta sotto pressione politico-ministeriale. Così sembra essersi salvato in angolo dalle dimissioni che sarebbero invece un atto dovuto. Perché le sue parole – nero su bianco – restano. E a rileggerle fanno ancora raggelare. Non solo e non tanto per quelle espressioni, reboanti e pseudopatriottiche, come “giusto orgoglio nazionale”, che si muterebbe in “imbarazzo” se ci fosse Rovelli, quanto per il messaggio di fondo che avalla e rilancia. Un messaggio che – al di là di sofistiche piroette di metodo e merito – va finalmente messo in discussione.

Deve ancora essere affrontato nei suoi molteplici aspetti il capitolo “gli intellettuali e la guerra”, cioè il modo esecrabile in cui, in quest’ultimo anno, sono stati trattati in Italia coloro che, dal mondo della cultura e delle università, hanno tentato di contribuire a una riflessione critica sul conflitto in Ucraina. Non mi riferisco qui al ciarpame di offese personali e attacchi inverecondi, mossi non di rado persino da esponenti di partiti o cariche istituzionali. Guardo piuttosto all’idea, assecondata sin dall’inizio, per cui un fisico dovrebbe parlare solo di fisica, confinarsi a quell’ambito di conoscenze, senza osare toccare il tema della guerra. Insomma: “Limitati alla tua ricerca sui buchi bianchi!” e soprattutto “non osare intervenire sul conflitto in corso”. Travalicare i limiti non va, dà adito a “polemiche”. Meglio restare nel proprio campo accademico, dentro quei confini. Guai a superarli! Perché della guerra – questo è il punto – si dovrebbero occupare solo gli “esperti”, che sarebbero poi coloro che si presentano come tali o come tali vengono avvalorati nello spazio pubblico. Bene che a intervenire sia lo studioso di geopolitica, il generale, l’ex ambasciatore, l’inviato sul campo, l’economista, ecc. I quali, com’è noto, non hanno mai un punto di vista oggettivo. Ma una cosa deve essere chiara: la guerra è un tema politico. Appartiene alla comunità e pertiene a tutti. Senza scomodare i filosofi greci, lo diceva già con chiarezza Kant quando indicava le peculiarità della democrazia. Tutti devono poter parlare di guerra. E tanto più gli intellettuali.

Nella deriva autoritaria di questo Paese è proprio il ruolo dell’intellettuale che viene messo a repentaglio. Da un canto ci sono i nostalgici, quelli che rimpiangono i tempi che furono e proclamano quasi la fine di un ruolo pubblico sulla base dell’estinzione del vecchio intellettuale di partito. Dall’altro canto ci sono quelli che preferiscono misurarsi con gli intellettuali che stanno all’estero – per un’esterofilia provinciale mista a comodità. Meglio citare il mediocre libello di Edgar Morin sulla guerra che confrontarsi apertamente con quelli che in Italia esprimono da tempo pensieri analoghi, forse più articolati e circostanziati. In entrambi i casi vengono radiati e delegittimati coloro che sono intervenuti, e continuano, malgrado tutto, a intervenire nello spazio pubblico, sempre e più che mai militarizzato.

Eccolo lì Carlo Rovelli, sul palco del Primo Maggio, a indicare con coraggio le responsabilità politiche, a mostrare i rischi dell’escalation bellica, a reclamare i negoziati. È un’immagine emblematica che non dimenticheremo. Avrebbe potuto restare nei limiti confortevoli dell’accademia, quel territorio inaugurato da Platone per tutelare i filosofi che, pensando in pubblico a voce alta, potevano rischiare la morte, com’era successo a Socrate. Varcare oggi, in tempo di guerra, quei confini non è facile. Per questo Rovelli ha dimostrato di essere un intellettuale nel senso eminente della parola. Brutta immagine, invece, quella di Levi, che lancia il sasso e ritira la mano, dice e disdice, per non rischiare il posto. Eppure le sue dimissioni sarebbero davvero opportune e auspicabili, soprattutto perché ha dimostrato di non sapere che cosa voglia dire essere un intellettuale, cioè di non conoscere proprio ciò che dovrebbe tutelare. Mai come ora, infatti, il mondo della cultura e dell’intellettualità ha bisogno di sostegno, apertura, lungimiranza. Non si rimandano a casa, e ai loro libri, gli scienziati che parlano di politica; dovrebbero invece tornare a casa quelli che, occupandosi di cultura, hanno detto una tale scempiaggine.