Già 600 morti negli scontri, Europa e Stati Uniti preparano l’evacuazione. Il contributo della Wagner potrebbe risultare decisivo

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it) – Sapete come è: tutte le storie hanno un inizio. Qui in Sudan l’inizio e la fine si chiama AK-47. Perché questa è una delle terre del kalashnikov dove grava il diminuito rispetto della vita e dell’individuo che le guerre portano con sé come portano la peste. Guardate come lo stringono i famigerati malfattori della battaglia di Khartum dove i morti “contati” sono già più di seicento tra cui un cittadino americano, e questo forse sarà quello che fa la differenza. Dalle zone bombardate si alza un fumo nero, tremulo, vegetale.

Lo levano in aria, il loro fucile d’assalto, lo maneggiano a raffica, non se ne separano mai, segno di forza e garanzia di sopravvivenza, potere e modernità, amuleto e salvezza, correttivo miracoloso alla paura che, per chi è privo di Tempo e di Storia come costoro, è spavento senza nome, terrore perpetuo e buio. Unico correttivo alla sciagura di essere nati in un luogo dove il destino non sembra offrirti possibilità e puoi giocare, ogni giorno, una sola carta per sopravvivere.

Perché non buttare via la “malloda”, la zappa, con cui puoi far crescere in po’ di sorgo, di mais? La terra è deserto, o non è molto fertile, e non ci sono aratri trattori sementi concimi. Meglio affidarsi agli aiuti internazionali, un sacco di farina prima o poi arriva sempre. Il meccanismo funziona, lo conosco, tu attendi il cibo in qualche campo di rifugiati, non dai fastidi al governo, del nord e del sud, che continua i suoi traffici, la corruzione, le guerre private. I bianchi perfezionano anche loro gli affari petroliferi e minerari e con l’elemosina si salvano l’anima.

E allora la soluzione ce l’hai in pugno. Con il kalashnikov sei un uomo, puoi difendere la tua famiglia, trovare un padrone, altrimenti sei niente. Toccatelo, guardatelo: tre chili di ferro e di legno, antico o nuovo, semplice, robusto, affidabile, micidiale. Il prodigio di un diavolo sovietico con laurea da ingegnere che ha creato il comunismo della morte, che rende possibile perfino le economiche armate di bambini. I segni della guerra qui si cancellano alternativamente sepolti dalle siccità e dalle inondazioni, quando il vento solleva la sabbia o l’acqua si ritira ricompaiono, ossa teschi, morte indisturbata, abbandonata a sé stessa accanto alla vita. Le capanne con un po’ di frasche e di fango si ricostruiscono in fretta, c’ è sempre una bidonville un poco più in là. A Khartum quelli che il kalashnikov non l’hanno ora fuggono, lasciandosi dietro i loro miseri avanzi, e la città resta indietro deserta e sola, in preda ai suoi padroni. Si preparano a fuggire anche gli occidentali: per i tedeschi è già certo, gli americani hanno le forze speciali pronte nella base di Gibuti. Noi (gli italiani sono duecento) definiamo la situazione «preoccupante». Chissà.

Vivevamo questi giorni feroci del Sudan, della guerra civile tra esercito e milizie, nell’angosciosa attesa dell’irrompere dei mercenari russi della Wagner putiniana, accorti fornicatori di tutte le tragedie africane lasciate a incancrenire da noi, illuminato occidente. E invece i pretoriani di Prigozhin l’africano stanno quatti, alleati di tutti, del generale dittatore e del suo rivale. Aspettano di vedere chi vincerà la battaglia per il potere. Ecco spuntare loro, gli islamisti, poiché nelle terre dove il kalashnikov segna la distinzione tra umano e disumano sono a loro agio, ne sanno sfruttare ogni piega, stabilmente incistati negli interstizi del caos. Sono già tutti intorno, shebab, isis, al qaida, in Somalia, Mozambico, Centrafrica. Il Sudan è uno dei luoghi da cui da tempo sono usciti dall’ampolla e benché all’inizio sembrassero un gracile demonietto, hanno iniziato a crescere fino a diventare tanto grandi da agguantare mezzo mondo per la gola. Il Sudan è il segnalibro nella narrazione del jihad africano. Comparse, semplici ascari, o protagonisti? Chissà. Sarebbe un paradosso dover chiedere aiuto ai manovali putiniani della Wagner per mettere in salvo gli occidentali finiti ostaggio della battaglia di Khartum!

Dicono che gli islamisti siano più numerosi tra i sostenitori del generale Burham: i fedeli del dittatore al Bashir, l’amico di Bin Laden, sopravvissuti senza troppi danni alla stenta rivoluzione del 2019, rimasti soprattutto nell’esercito regolare in ruoli di potere. Il suo rivale Mohamed Dagalo detto Hemetti proclama di aver scatenato proprio contro di loro le sue milizie per portare a termine «la liberazione» rimasta a mezzo, tradita cinque anni fa. Ma qui è tutto un gioco di ombre grigie, di sigle. Il nucleo della lugubre armata privata del golpista è tratto dalle tribù guerriere del Darfur dove si sono esercitate ad ammazzare nella pulizia etnica dei neri “africani”. Ebbene le reclute del “Movimento per la giustizia e la legalità’’ del grande vecchio, Hasam al Turabi, erano raccolte proprio nel Darfur tra la tribù degli zaghawa. Turabi: santone ambiguo e misterioso, regista della sharia con laurea alla Sorbona, soprattutto tessitore negli anni ottanta della prima Internazionale islamista a cui, in fondo, Bin Laden ha poi aggiunto soltanto un arsenale e grandi fondi, una mentalità da multinazionale e le occasioni che gli hanno offerto i tempi nuovi della jihad contro l’occidente.

Abbiamo dimenticato in fretta che ancora prima di Tourabi qui è sbocciata la prima jihad contro lo strapotere dell’Occidente, per cancellare la gigantesca allucinazione secondo cui sono solo i suoi eventi a fare la Storia, e agli altri non resta che vivere in una condizione di ciclico stupore, sgomenti e paralizzati.

Si voleva purificare, partendo da questi deserti, armi alla mano, prima il mondo corrotto dell’Islam e poi quello pestifero dei miscredenti. Sì, come spesso accade, è nelle periferie del mondo che l’incendio meglio si attizza, trovano nuovo vigore formule come la guerra santa, il regno di dio sulla terra, che immaginiamo venute a finir qui come i vecchi battelli coperti di ruggine che solcano il Nilo. Per capire il perché verso sera, l’aria trasparente non vibra più come se uscisse da un forno, bisogna andare a Omdurman passando un ponte sul Nilo bianco, raggiungere la moschea della città araba, assai più vecchia di Khartum. Le storie più antiche e drammatiche vi sono riposte, di quando i sudanesi tennero testa fieramente agli inglesi e agli egiziani che si dividevano in diseguale condominio questo gigantesco frammento d’Africa.

A insorgere contro il regime corrotto ed esoso del kedivè egiziano, gran trafficante di avorio e di schiavi, fu un misterioso “profeta’’ Ahmed Mohammed che si fece chiamare il madhi, il Messia. Annunciava guerra, ovviamente santa, ordinava di cacciare gli stranieri e portare le sue schiere armate di elmi e corazze quasi medioevali, lance e spingarde fino a liberare la Mecca e Istanbul dagli apostati, a pregare nella grande moschea sul Bosforo. Conquistò Khartum, massacrò egiziani e inglesi, trucidando una leggenda dell’Inghilterra vittoriana, Gordon pascià, singolare figura di mistico e beone, implacabile missionario del colonialismo con la bibbia in mano.

Ci vollero tredici anni agli inglesi per riconquistare Khartum dopo aver risalito il Nilo con le cannoniere. Il madhi nel frattempo era morto, davanti a Omburdam si combattè la battaglia decisiva. Gli inglesi ebbero 49 morti, i jihadisti diecimila. La moschea con l’immensa cupola argentata era allora il mausoleo del Madhi. Il sarcofago è vuoto, gli inglesi lo hanno aperto nel 1898 e hanno gettato le ossa nel Nilo. Il cranio fu riservato alle macabre curiosità del museo antropologico di Londra. Nel 1958 al momento della indipendenza i sudanesi furono più civili con la grande statua che celebrava il generale Gordon. Con una cerimonia austera la smontarono dal piedistallo e chiesero agli inglesi di venire a riprendersela.