Produttori, finanzieri e vip: il boom dei prezzi fa crescere del 21% le acquisizioni dall’estero nei terroir più pregiati

(di Alessandro Cicognani – repubblica.it) – Gli occhi sui vigneti italiani più prestigiosi, i capitali stranieri li hanno messi da tempo. La crescita delle acquisizioni che si sono susseguite negli ultimi tre anni lo testimonia: tra il 2019 e il 2022, fotografa un’analisi di InfoCamere, sono salite da 173 a 209 (+21%) le società di capitale che contano la presenza di un socio estero che, tre volte su quattro, ha in mano il pacchetto di maggioranza assoluto. Due tasselli di contesto: con oltre 50,2 milioni di ettolitri l’anno, l’Italia è il più grande produttore di vino al mondo e la seconda potenza per esportazioni dietro la Francia (8 miliardi il giro d’affari). Numeri che non potevano non accendere il desiderio degli imprenditori stranieri – tra cui figurano finanzieri, capitani d’industria e personalità dello spettacolo – che hanno fatto spesa in particolare nelle aree più rinomate dello Stivale. Quelle del Piemonte, per intenderci, che attualmente – sempre limitandosi alle società di capitale e lasciando fuori le micro tenute, meno tracciabili – conta 23 aziende con soci esteri, o della Toscana, ben 93 quasi tutte concentrate tra le province di Siena e Firenze. Segue con 17 la Lombardia, patria della collina bresciana del Franciacorta. Fatta queste premesse, i dati InfoCamere aprono a qualche riflessione: perché le aree vinicole pregiate fanno tanto gola all’estero? E poi, come mai le big nazionali del vino sembrano faticare a ingrandirsi in questi territori, salvo rari casi?
Sempre più chiantishire
Volendo individuare una data, si potrebbe far risalire l’inizio dei corteggiamenti alla fine degli anni Settanta, quando i fratelli italoamericani John e Harry Mariani rilevarono il Castello Banfi, aprendo le porte del mercato Usa al Brunello. Da lì le compravendite eccellenti sono state molte, specie negli ultimi anni. Quella che ha fatto il giro del mondo, nel 2016, è stata sicuramente la cessione al gruppo francese Epi della Biondi Santi, tra le più iconiche cantine d’Italia. Sempre la Epi l’anno scorso è tornata a fare affari, questa volta nel Chianti, acquisendo Isole e Olena. Qualche anno prima, nel 2013, è stata la storica Argiano a passare di mano, diventando di proprietà del finanziere brasiliano André Santos Esteves. Riavvolgendo ancor più il nastro si arriva al 1997 e all’acquisto da parte del cantante Sting della tenuta Il Palagio, tra le colline a sud di Firenze. Del 2009 è invece la vendita del 100% di Mionetto, in Valdobbiadene, alla tedesca Henkell & Co, mentre pochi anni dopo, nel 2011, sono diventate russe le bollicine di F.lli Gancia, con la presa del timone da parte del magnate Roustam Tariko, che poi nel 2017 ha ceduto una parte delle tenute. Tornando ad annate più recenti, molto rumore hanno fatto le vendite di Vietti, in Barolo, all’imprenditore americano Kyle Krause e poche settimane fa quella della montalcinese Il Palazzone, ora nelle mani di Peter Kern, ceo del gruppo leader mondiale nei viaggi online Expedia.
Un barolo da 1,5 milioni
C’è da chiedersi, a questo punto, se il comparto italiano sia in qualche modo a rischio. Persino Kerin O’Keefe, tra le più celebri voci statunitensi del vino italiano, non ha mai nascosto il suo scetticismo, per via del fatto che queste aziende non hanno un legame storico con l’Italia e, per di più, molte non hanno proprio nulla a che fare con la viticoltura. E ora dalle Langhe si è levato il grido di Matteo Ascheri, presidente del Consorzio del Barolo: “Ai finanzieri vip dico lasciateci in pace”. Ma c’è un problema e si chiama prezzo. Secondo le stime Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) all’interno della Docg Barolo i costi delle vigne hanno raggiunto gli 1,5 milioni l’ettaro. Nelle altre desideratissime Montalcino e Bolgheri si arriva, rispettivamente, a 700 mila e 480 mila euro. Peccato che, messe insieme, Toscana e Piemonte pesino per il 9,5% dell’intera produzione nazionale. La sensazione è che le quotazioni di determinati terroir abbiano toccato cifre record in conseguenza più di un riconosciuto prestigio, che si riflette poi nei prezzi stellari delle bottiglie, che per una effettiva capacità di generare volumi e fatturati rilevanti al di là di una dimensione prettamente familiare.
La strategia degli italiani
Ecco perché, a parte rari casi come Antinori e Frescobaldi, i grandi player italiani come Gruppo Italiano Vini, Argea, Iwb o Masi Agricola sembrano faticare a conquistare le aree che più piacciono agli stranieri. “Il tema è di economie di scala – spiega Lorenzo Tersi, fondatore di LT Wine & Food Advisory, società che si occupa di consulenza strategica – . Piuttosto che andare in geografie così elevate, preferiscono zone a costi minori, ma maggiormente produttive, con l’obiettivo di puntare alla marginalità e alla sostenibilità economica. Le piccole imprese familiari, invece, non hanno le spalle abbastanza larghe per investimenti di questo tipo, che superano anche otto o dieci volte il margine operativo lordo”. Si dice che Biondi Santi, solo per citare un esempio, sia stata venduta per una cifra superiore ai 100 milioni di euro. “Questo – aggiunge Tersi – spiega il perché siano arrivati investitori finanziari, che vedono nel Made in Italy un marchio molto attrattivo, anche nell’ottica di operazioni di cross selling. È però bene chiarire – conclude – che il vino non potrà essere esente dal cambiamento e nei prossimi anni le operazioni di M&A non faranno che crescere”.