A Roma prevale l’interventismo. Salvini e B. mugugnano, Fdi assicura gli States. Il filo diretto di Palazzo Chigi con Joe Biden, da un lato, e le dichiarazioni programmatiche del ministro Guido Crosetto dall’altro indicano […]

(DI SALVATORE CANNAVÒ – Il Fatto Quotidiano) – Il filo diretto di Palazzo Chigi con Joe Biden, da un lato, e le dichiarazioni programmatiche del ministro Guido Crosetto dall’altro indicano chiaramente che la guerra è in casa.

È stato lo stesso Biden ad annunciare ai giornalisti di aver attivato i colloqui del Quint, il coordinamento formato da Usa, Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia sulle questioni delicate in ambito G7. E quindi di aver chiamato Olaf Scholz, Rishi Sunak, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni. Biden sottolinea, oltre all’iniziativa tedesca, proprio il contributo dell’Italia nel sostegno all’Ucraina. Contributo che, secondo fonti parlamentari raccolte dal Fatto, sarebbe stato messo in discussione nei giorni scorsi da Silvio Berlusconi e Matteo Salvini che hanno cercato di fare pressione sul ministro della Difesa per assumere una posizione più flessibile sugli aiuti all’Ucraina.

La linea diretta Meloni-Biden e il discorso del ministro della Difesa ieri in Parlamento dicono invece che la pressione è stata respinta e che Fratelli d’Italia si conferma come il partito più sicuro della linea interventista.

La relazione di Crosetto alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato sulle linee programmatiche del suo ministero può essere riassunta in una frase inquietante: prepariamoci alla guerra. Con un esercito più forte, meno frenato da vincoli legislativi, più finanziato e percepito non più come “costoso”, ma utile e “fecondo” per lo sviluppo del Paese, creando così una nuova “cultura della Difesa”.

Il governo vuole attrezzarsi allo scenario internazionale definito come del tutto inedito, in cui la proiezione internazionale diviene strategica anche al di là delle missioni di “pace” per come sono state finora conosciute.

La guerra in Ucraina delinea uno scenario diverso in cui le Forze armate devono essere dispiegate lì dove è messa a repentaglio “la nostra democrazia”. E quindi servono strutture militari più efficaci, più attrezzate, più addestrate.

Quindi servono più fondi e l’obiettivo fissato dalla Nato di raggiungere il 2% del Pil nelle spese militari non si discute. Crosetto pensa che ci si debba arrivare nell’arco di due anni, anche se questo non lo dice nell’audizione. Ma il segnale è chiaro. “Oggi siamo all’1,4% quindi molto più bassi di quanto definito dalla Nato”. La riduzione non è un’alternativa, spiega Crosetto visto che il personale non si può toccare, la spesa corrente, in gran parte le manutenzioni, nemmeno. Toccare gli investimenti significa “prepararsi a un percorso di arretratezza”. Ipotesi che non collima con la nuova “cultura della Difesa” che deve prevedere un ruolo dell’Italia molto più autorevole e influente sulle decisioni internazionali. Nell’immediato, ad esempio, significa che per compensare gli aiuti all’Ucraina occorre subito ripristinare le scorte nazionali aumentando ancora le spese militari. Crosetto rilancia l’idea di scorporare le spese militari dal calcolo rispetto al patto di Stabilità, “un fatto puramente tecnico”.

L’obiettivo è avere più fondi e soprattutto “stabilità dei finanziamenti” con una legislazione triennale. Nel suo intervento Crosetto insiste più volte sulla necessità di modifiche alla normativa, in modo che “la rapidità militare non debba scontrarsi con vincoli legislativi”. Le decisioni vanno spostate là dove ci sono le competenze e occorre rafforzare la capacità “autonoma” dei militari. Ai militari si promettono favori sul piano del welfare, della previdenza, “anche specifica”, e garanzie di ricollocazione lavorativa a seguito di ferme a tempo determinato.