(Massimo Gramellini – corriere.it) – Non so Messina Denaro quanti politici e imprenditori controllasse ma di sicuro non controllava sua figlia. Venuta al mondo quando il padre era già latitante, Lorenza crebbe in casa della madre di lui, che si chiamava come lei, e delle quattro zie, le sorelle del boss. Par di vederla mentre si aggira bambina in quell’appartamento dalle serrande sempre abbassate, con le foto del padre che la scrutano dalle mensole degli armadi. La mamma di Lorenza si poté concedere le uniche libertà di darle il suo cognome e, immagino, un esempio dissonante rispetto a quel bell’ambientino. Ma il resto lo fece la scuola. Il frutto delle centinaia di eventi organizzati nei licei di Palermo in questi ultimi decenni lo si raccoglie adesso: gli applausi ai carabinieri che avevano appena arrestato Messina Denaro provenivano in prevalenza da persone giovani, ed è a scuola che Lorenza ha respirato la nuova «narrazione» dove i magistrati erano eroi e i banditi, appunto, banditi. Quando in classe l’insegnante nominava il padrino, ignorando fosse suo padre, lei usciva in corridoio per la nausea, ma i temi contro la mafia li scriveva eccome. Poi si è costruita una vita tutta sua, rifiutandosi sempre di incontrarlo. Quella frase ritrovata nel diario di lui, «perché mia figlia è arrabbiata con me?», la dice lunga sulla scarsa consapevolezza che Messina Denaro ha di sé stesso, ma anche sul carattere di Lorenza. «Fate finta che io non esista», ha chiesto la ragazza ai giornalisti. Giusto così, però Lorenza esiste. Per fortuna.