Il segretario guida dietro le quinte la transizione del partito. Un progressivo distacco dalla politica attiva

(di Giovanna Vitale – repubblica.it) – ROMA – L’indiscrezione corre di bocca in bocca ormai da settimane: “Enrico sta cercando una via d’uscita”. Convinti, i colleghi in Transatlantico, che il segretario del Partito democratico – una volta consegnate le mostrine del capo al vincitore delle primarie – non durerà a lungo neppure fra gli scranni di Montecitorio.

“Sono mesi che non sente e non vede più nessuno”, racconta chi pure gli è stato vicino nei quasi due anni di permanenza al Nazareno. Come se la scelta di vestire i panni dell’arbitro non giocatore, ossia di mantenersi equidistante e non candidarsi al congresso dopo le dimissioni che gli hanno impedito di rassegnare la notte stessa della batosta elettorale – trattenuto in sella dallo stato maggiore dem, preoccupato per il potenziale vuoto di potere – fosse un gesto studiato di disamore: nei confronti del partito che di fatto non governa più e del ruolo di leader largamente condiviso che ha perduto già da un po’.

Deflagrato il Pd sotto i colpi della lotta fra correnti, tornata cruenta in vista dei gazebo, e con esso l’unanimità di facciata garantita dalla stagione di governo, Letta s’è infatti inabissato. Deciso a sottrarsi al giochino di chi ne ha voluto fare, ben oltre le sue innegabili responsabilità, il capro espiatorio di tutti gli errori commessi dopo la caduta di Mario Draghi: dalle alleanze mancate alla postura da tenere all’opposizione, fino alla caotica organizzazione della fase costituente, causa ed effetto del precipizio nei sondaggi e del sorpasso del M5S. Un tiro al piccione che l’ha molto amareggiato: simile alla delusione provata ai tempi della cacciata da Palazzo Chigi per mano di Matteo Renzi. Tale da innescare, oggi come allora, una crisi personale e una profonda riflessione sul suo futuro.

È a un bivio, Enrico Letta. Incerto se ripercorrere a ritroso la strada che nel 2015, prima d’essere richiamato al capezzale del Pd ferito dall’addio di Nicola Zingaretti, lo condusse fuori dal Parlamento, a insegnare in una grande università francese, nei board di prestigiose compagnie straniere (da Abertis a Toyoi), advisor di società del calibro di Spencer Stuart, al vertice di organismi internazionali come l’Italia-Asean, l’associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico. “È evidente che se volesse rientrare in quel mondo lì, non avrebbe problemi: con il suo curriculum potrebbe fare qualsiasi cosa”, concordano i compagni di banco alla Camera. Oppure se restare in politica nonostante tutto – consapevole che un nuovo congedo sarebbe stavolta irreversibile – sebbene optando per la dimensione che gli è da sempre più congeniale: quella europea.

Una volta eletto alla guida del Pd, Letta ha sì rinunciato a tutti gli incarichi accumulati nell’esilio da professore, ma ha mantenuto la presidenza dell’Istituto Jacques Delors, dove potrebbe tornare a tempo pieno. E ha continuato a coltivare, intensificandole grazie al ruolo di segretario di uno dei maggiori partiti progressisti del continente, importanti relazioni oltreconfine con leader politici e capi di governo. Tant’è che c’è una delle strade che si prospettano è quella che porterebbe a Bruxelles. Non è affatto esclusa l’ipotesi che Letta si allontani progressivamente dalla politica attiva italiana, per approdare a una candidatura alle Europee del 2024: la chiave in grado di schiudere le porte di un ufficio di peso a Bruxelles qualora le elezioni dovessero premiare la famiglia socialista. Oppure a Strasburgo, dove le possibilità per un ex presidente del Consiglio sono comunque molteplici. La poltrona da vicepresidente del Parlamento europeo a quel punto sarebbe l’approdo “minimo”.

Va detto che se dovesse spettare all’Italia una qualche casella strategica sul piano internazionale – dal vertice Nato al Consiglio europeo – Giorgia Meloni difficilmente promuoverebbe il nome di Letta. Ne esisterebbe già un altro in pole: Mario Draghi. Ex premier come lui, ancor più conosciuto fuori confine. Tutte variabili su cui Letta sta riflettendo per decidere cosa fare da grande.