(Vittorio Macioce) – La foto è sbiadita in fretta, un paio di settimane, come se la realtà le avesse tolto luce e non sempre quando questo accade c’è la possibilità di rimediare. Dipende dalla stoffa dell’abito e dalla trama con cui è disegnato. L’uomo dimostra meno dei suoi quarantadue anni, anche se ci tiene a mostrare una saggezza antica. È nato Bétroulilié in Costa d’Avorio. È arrivato in Italia a diciannove anni. Si è laureato in sociologia a Napoli. Questo è il suo primo giorno da deputato. Onorevole Soumahoro. Aboubakar Soumahoro.

Suona bene. Qualcuno sostiene che abbia il passo di Giuseppe Di Vittorio da Cerignola. Per tanti è l’uomo nuovo della sinistra. Fuori dal Palazzo piove, come in un romanzo di Saramago, ma nessuno sembra preoccuparsene. L’onorevole Soumahoro, paladino dei braccianti, ha un completo blu, con la camicia bianca, da dottore in rivoluzione, e ai piedi indossa un paio di stivali verderame simbolo dei «nuovi cafoni» di una Fontamara diffusa, di un popolo sbarcato in cerca di destino. È un’Italia su cui, da una parte e dall’altra, si getta uno sguardo ideologico. Quegli stivali adesso sanno di falso. Non si è qui per gettare pietre su Soumahoro, ma per ragionare sulle fortune e le disgrazie del potere. Sulla fragilità della politica, su come si consuma la sua energia, che non arriva dalle idee e neppure dal consenso, ma dalla capacità di contagio dell’immagine. È una politica veloce, istantanea e che arriva ovunque. Bisogna riconoscere che non è mai stata cosi popolare. È però anche la sua debolezza. Questo tempo così lesto e vaporoso non ha pazienza. Non può averla. La pazienza ti porta fuori dal gioco. È così che protagonisti e comparse non possono che essere maschere, disegnate con pochi tratti, facilmente riconoscibili. È a questo che servono gli oggetti, gli abiti, gli accessori. È lo stivale di Soumahoro, i rosari o le felpe di Salvini, le cravatte da avvocato di provincia globale di Giuseppe Conte. La loro stessa storia deve essere semplice, raccontata in un canovaccio senza troppe sfumature. La cosa interessante è che non sono personaggi. Non hanno nulla di pirandelliano. Non sono anime in cerca di un senso, che si ribellano a una metafisica che sta un passo alla volta smarrendo le parole.

Non sono visceralmente trasgressivi e non rompono l’ordine universale o la consuetudine. Non sentono il dramma della morte di Dio. Il potere, come rappresentazione politica, non solo ha nascosto l’umano, ma ha espulso dalla scena perfino il personaggio. Non ne resta neppure lo sbuffo. È una svolta più profonda di quanto si possa immaginare e rispecchia lo spirito del secolo. Il potere resta autobiografia della nazione. Ma cosa c’è al posto del personaggio? L’avatar. No, non è la stessa cosa. Il personaggio sulla scena ci mette il corpo e le parole. È sempre finzione o mistificazione ma non può annullare la realtà. È tragicamente reale, anche quando mente, quando si mostra alla folla o quando si incancrenisce al suo interno. Il personaggio deve comunque fare i conti con l’umano che lo interpreta. Non può smentirsi.

Non può dire ieri una cosa e domani il suo opposto. È costretto alla coerenza. Se appare improbabile è finito. Cade. L’avatar no. L’avatar non ha bisogno di coerenza e punta anzi a reinventarsi ogni giorno, seguendo una suggestione quotidiana. L’avatar non ha una storia ma un «outfit». È stivali, camicia, cappello, bracciale, cappotto da indossare e consumare.

L’avatar non è l’eroe che indossa sempre lo stesso vestito. Non è neppure la maschera della commedia dell’arte. È una seconda vita che rinnega ogni contatto con la realtà. È strano. La parola avatar in sanscrito indica il Dio che si incarna.

L’avatar del nostro tempo è l’umano che perde carne e storia. È un dio vuoto.