Con i rincari le imprese più energivore riducono la produzione: da Terni all’Ilva fino agli allevamenti. L’altro ieri, quando l’Ast di Terni ha riaperto dopo la pausa estiva, è tornata in funzione una sola linea produttiva nell’area a caldo. E il presidente dell’acciaieria più antica d’Italia […]

(DI PATRIZIA DE RUBERTIS – ilfattoquotidiano.it) – L’altro ieri, quando l’Ast di Terni ha riaperto dopo la pausa estiva, è tornata in funzione una sola linea produttiva nell’area a caldo. E il presidente dell’acciaieria più antica d’Italia, Giovanni Arvedi, ha già annunciato che nelle prossime settimane lo stop riguarderà anche un paio di impianti dell’area a freddo. Stessa situazione a Taranto. All’ex Ilva è slittata la ripartenza degli impianti Afo2 e Acciaieria 1: tenerli in funzione a pieno regime ha un costo eccessivo. Gli impianti di produzione in marcia sono pochissimi e l’ad di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli, per tagliare le spese ha anche disposto di spegnere gli impianti di condizionamento. Ormai le imprese italiane stanno iniziando ad avviare, nei fatti, quelle misure di razionamento dei consumi di energia e gas per contrastare i rincari folli che il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, continua a escluder, snocciolando numeri a raffica sulle forniture alternative alla Russia. Ma neanche la riduzione della produzione basta per far fronte ai prezzi energetici alle stelle. Dalla siderurgia all’agroalimentare, passando per carta o ristorazione, la situazione è già fuori controllo. Basta pensare che secondo Confcommercio, da qui ai primi sei mesi del 2023 sono a rischio 120 mila aziende e 370 mila posti di lavoro. Una mappa in costante aggiornamento.

L’ultima in ordine di tempo che si è arresa è la cartiera Ico che ha chiuso la sede di Alanno (Pescara) a causa dell’aumento dei costi per produrre la carta assorbente, mettendo a rischio il futuro di 35 famiglie. I costi proibitivi hanno costretto Acciaierie di Sicilia, dopo lo stop dei mesi estivi, a programmare la chiusura per tutto il mese, attivando la solidarietà per 250 lavoratori con conseguenze anche sui circa 250 addetti dell’indotto. Non basta più ai manager delle aziende lavorare con un occhio fisso al prezzo del gas sul mercato di Amsterdam per decidere anche se spostare la produzione magari di notte, quando i costi scendono. E intanto le imprese rischiano di perdere commesse a favore di quelle straniere che possono lavorare a prezzi più bassi. E questo vale anche per le ceramiche. Il gruppo MoMa Ceramiche di Finale Emilia (Modena) sta tenendo in ferie i suoi 340 dipendenti con cassa integrazione anticipata dall’azienda fino al 25 settembre. Ma l’ad Renzo Vacondio ha già deciso di sospendere le attività da Natale fino al 1° febbraio. “E se a marzo il gas continuerà a costare come adesso – ha spiegato – ci trasformeremo in trader che comprano dai Paesi a basso costo e rivendono”. Senza bisogno di avere dei dipendenti. “Così è un dramma per i livelli occupazionale”, spiega la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti che chiede “la cassa integrazione straordinaria sul modello di quella gratuita Covid”.

A sospendere la produzione dal 1° ottobre sarà anche la Ecobat, leader mondiale nel riciclaggio delle batterie, negli stabilimenti di Paderno Duganno (Milano) e Marcianise (Caserta). Ma oltre al dramma del livello occupazione c’è anche quello legato alla competitività. “Sono troppe le imprese messe a rischio sopravvivenza”, dice il presidente dell’Unione industriali di Varese, Roberto Grassi. Tante imprese “hanno deciso di non riaprire dopo le ferie” e altre “hanno già deciso di bloccare la produzione, perché a questi livelli, pur di fronte a un buon portafoglio ordini, è ormai diseconomico produrre”.

Poi c’è anche il caso estremo che arriva dalla Calabria. La Assolac, la più importante cooperativa del settore che raccoglie il 70% del latte prodotto nella Regione, ha spiegato che gli allevatori stanno abbattendo i capi perché non sono in grado né di mantenerli né di pagare le bollette. “Non si può produrre un bene primario come il latte che costa più di quanto questo viene pagato”, racconta il presidente della Assolac, Camillo Nola. Ma quasi un allevamento su dieci è in una situazione così critica da portare alla cessazione dell’attività per l’esplosione dei costi, sottolinea Coldiretti. E se non si arriva a decisioni così drammatiche, l’alternativa è l’aumento dei prezzi. È l’allarme lanciato da Granarolo e Lactalis, secondo i quali il latte potrebbe superare i 2 euro al litro. Così come ad aver aumentato i prezzi sono anche bar ristoranti che hanno messo le bollette in vetrina, spiegando che l’alternativa è la chiusura di migliaia di strutture.