L’eroica retorica proposta dai comandanti, di cui fu poi imbevuto il regime di Mussolini, evaporò di fronte alla disfatta: così l’esercito di contadini abbandonò il conflitto “voluto dai padroni”. In occasione della catastrofe di Caporetto, nell’opinione pubblica, fra i testimoni […]

(DI ALESSANDRO BARBERO – Il Fatto Quotidiano) – In occasione della catastrofe di Caporetto, nell’opinione pubblica, fra i testimoni, i giornalisti, gli ufficiali e i soldati, vennero fuori umori, idee e punti di vista che anticiparono la svolta autoritaria e violenta del fascismo.

La battaglia iniziò il 24 ottobre 1917, cinque anni prima della marcia su Roma. (…) Ma prima c’è un altro aspetto che colpisce (…) il vizio italiano che si ripresenta: la tendenza alla retorica, stentorea, gonfia, virile, ma sotto sotto vuota. Caratteristica che associamo al fascismo (…), ma già presente nel linguaggio dei generali durante la Prima guerra mondiale. È allora che anche nell’esercito si cominciò a pensare che la truppa non fosse fatta solo di automi messi in divisa e mandati a morire: e con la truppa bisognasse invece fare un lavoro di educazione e propaganda. (…) Il generale Capello, comandante della II armata – quella che verrà investita dall’offensiva nemica a Caporetto e che verrà sbaragliata in pochi giorni e poi resterà nella memoria collettiva come la “colpevole” – proponeva alle truppe questo tema: “È necessario che l’attacco abbia sempre e assolutamente il carattere travolgente della valanga”. (…) I suoi subalterni ovviamente avevano assorbito il suo stile: il generale Cavaciocchi, comandante del IV corpo d’armata che verrà tagliato a pezzi in poche ore il 24 ottobre, in una circolare sull’uso dell’artiglieria ordinava: “Voglio che il nemico preparantesi ad attaccare sia inchiodato sul posto dal nostro fuoco. Se tenti (il nemico) di avanzare, il fuoco sia sterminatore, più per la sua precisione che per il numero dei colpi sparati. Il tiro di sbarramento deve riuscire magistrale”. Capite com’è facile fare il generale: tu ordini che gli altri facciano un tiro magistrale e loro, ovviamente, obbediranno! (…)

Questo genere di vaniloquio fa anche parte di un certo uso comunicativo del regime fascista: un Paese i suoi vizi se li porta dietro a lungo. Il fascismo è stata una rottura netta nella storia d’Italia, ma non vuol dire fosse tutto nuovo: pescava in atteggiamenti, comportamenti, abitudini che erano già del Paese. (…)

Sono presenti testimonianze successive a Caporetto sul danno che questa retorica produsse. Dopo la catastrofe, in Italia si nominò una Commissione parlamentare d’inchiesta, che fece un grande lavoro nel ’17-’18, interrogando e intervistando un’infinità di militari, dal generale al soldato semplice, per cercare di capire cosa fosse successo. Un generale, Sachero, dirà davanti alla Commissione che il soldato italiano (allora ai vertici dell’esercito si cercava di dimostrare che la colpa di Caporetto era dei soldati) “è intelligente ed è capace di sacrificio, ma detesta in cuor suo i parolai, disprezza i diffonditori di luoghi comuni e soprattutto poi non vuol essere ingannato. La II armata era piena di predicatori grandi e piccini che tentarono di ingannarlo, egli se ne avvide e ciò contribuì a far perdere agli ufficiali ogni prestigio e quindi anche il dominio sulle masse nel momento di crisi”. Il ventennio fascista, invece, dimostrerà che gli italiani una certa voglia di ascoltare e di credere ai parolai ce l’hanno, salvo accorgersi all’ultimo momento d’esser stati presi in giro. Il crollo del fascismo il 25 luglio 1943 avvenne nel consenso, se non nell’entusiasmo, generale in un Paese che fino a 4-5 anni prima era stato però in maggioranza allineato al regime (…).

Quindi secondo Sachero, già prima di Caporetto i soldati cominciavano a percepire d’esser presi in giro dai parolai che li comandavano e ciò contribuì a fargli perdere la voglia di farsi ammazzare per difendere il Paese e la classe dirigente. Ma cosa successe a Caporetto e nella successiva ritirata?

Le dimensioni della catastrofe furono gigantesche. (…). Non solo l’esercito, ma la nazione fu ferita in modo drammatico, col nemico che avanzò di 150 km dentro il Paese e occupò per un anno una fetta d’Italia. (…). Il comandante della brigata Potenza racconta: “Abbiamo attraversato paesi ingombri di soldati, avevano invaso case, botteghe e fienili, mangiavano, bevevano, cantavano, dormivano, facevano l’impressione di uomini che si erano liberati da un grande incubo. Per essi la guerra era finita, il nemico non esisteva più”. (…) E in questo contesto chi ancora aveva in mente gli avanzi della retorica con cui fino al giorno prima si era nutrita la propaganda, venne isolato e sbeffeggiato. In mezzo ai resti della brigata Avellino, in ritirata verso Udine, a un soldato che iniziò a cantare “Trieste del mio cuore ti verremo a liberar”, qualcuno esclamò “Trieste l’ha in culo, noi si va a casa!”. (…) A noi oggi possono addirittura far simpatia, ma immaginate la classe dirigente, i generali, i politici, i giornalisti che da due anni e mezzo avevano portato questi milioni di italiani in divisa a farsi ammazzare per una causa sacra, per l’Italia, per Trento e Trieste, per il destino del Paese. Immaginate che effetto fece vedere di colpo metà dell’esercito che diceva “a noi di questo non ce ne frega niente, ce ne torniamo a casa”. (…) Su ciò che urlavano e cantavano gli sbandati venne fuori la sensazione di una qualche politicizzazione di queste masse: non è solo “ci siamo stufati di fare la guerra”, ma una presa di coscienza che la guerra è dei signori e dei padroni, non è la “nostra” guerra. (…) La massa dei soldati era composta da contadini analfabeti e la loro sensazione elementare fu questa: “Perché ci hanno mandato a crepare? Volevano ammazzarci tutti, i signori!”. Ci sono tra le masse in ritirata grida, slogan che a qualcuno facevano paura proprio come prodromi di rivoluzione. Le grida più frequenti erano ‘viva la pace’; ‘viva il Papa’; ‘viva Giolitti’. La prima risulta sovversiva per un Paese in guerra. Inneggiare al Papa in un Paese cattolico non lo dovrebbe essere, ma nel ’17 non erano ancora stati firmati i Patti Lateranensi, il Regno d’Italia e il Vaticano non si riconoscevano a vicenda e il Papa aveva la gravissima colpa d’aver fatto nell’estate ’17 un discorso in cui definì la guerra una “inutile strage”. La reazione del governo e dei generali fu di gelo totale. Come si permette il Papa? Questa guerra è la nostra guerra santa per cui stiamo mandando la gente a morire e lui si permette di parlare così? (…). Giolitti era il politico che più di tutti s’era opposto all’entrata in guerra dell’Italia ed era stato emarginato da una nuova coalizione politica che aveva portato il Paese in guerra.

(…) La società d’inizio 900 era spaccata. (…) La classe dirigente scoprì con orrore che ai soldati semplici non importava nulla che la guerra fosse stata perduta. (…) Per gli ufficiali che vengono dalla borghesia nazionalista, educata con tutt’altri valori, è la sconfitta che è inaccettabile: è la vergogna e la rovina dell’Italia. (…) E oltre alla diffidenza e al disgusto per un popolo che è corrotto dalla propaganda sovversiva e non ha idea di cosa sia il patriottismo, nella classe dirigente militare matura anche un altro atteggiamento: è il mondo politico che fa schifo. È il sistema politico liberale, il Parlamento, i partiti che fanno schifo (…). E dunque, da un lato, i politici sono screditati, “pietosi e obbrobriosi”, dall’altra il popolo si sarebbe rivelato “vergognoso e infame” e avrebbe bisogno di essere “curato”.

Vi è un’altra testimonianza, precedente a Caporetto, da parte di un ufficiale che già aveva maturato l’impressione che la truppa facesse schifo per mancanza di patriottismo e avesse bisogno di “energiche cure”. È Ottone Rosai, pittore famoso che sarebbe diventato squadrista e manganellatore della prima ora, ufficiale della brigata Tortona. “La brigata è imbastardita, le perdite subite sono state colmate con l’invio di nuovi elementi, aperte nell’occasione le galere, gli ospizi e i manicomi, ci capita un nuvolo di gente malfatta, zoppicante, contorta e soprattutto maldisposta. Il medico di battaglione deve riceverne ogni mattina delle frotte che vanno a marcar visita, ma l’ordine è di non riconoscere in loro alcun male e l’olio di ricino e il bastone han trovato lavoro”. È l’estate del 1917, il futuro squadrista Rosai dice già che per questa gente ci vuole “l’olio di ricino” e il “bastone”. (…) In quei mesi cominciano a pensarlo prima alcuni, poi altri. E dopo pochi anni questi umori avrebbero dato i propri frutti.