Il nucleo originario dello Stato non aveva un confine geografico preciso e ancora oggi nella Federazione convivono 200 etnie diverse: da questo la convinzione sulla necessità di un accentramento assoluto del potere, il bisogno rassicurante del governo forte

(Ernesto Galli della Loggia – corriere.it) – La Russia è uno Stato formatosi in un modo che in Europa non ha eguali, sicché solo se si conosce questo singolare processo, la sua storia, si può arrivare a capire anche la psicologia e il comportamento dei suoi governanti. A cominciare dalla loro secolare ossessione per la sicurezza con il tipico esito paranoico di sentirsi di continuo accerchiati e minacciati e di conseguenza predisposti alla più risoluta aggressività. Un modello che Putin incarna alla perfezione.

La Russia è innanzi tutto un problema geografico. Collocata per gran parte fuori dal nostro continente, è l’unica statualità europea che si è costituita con operazioni di conquista di tipo coloniale. Infatti, da un lato nel Sei-Settecento ha incorporato una parte enorme (e ricchissima di risorse minerarie) dell’Asia settentrionale allora abitata da sparuti gruppi di popolazioni indigene, la Siberia, e più o meno contemporaneamente ha strappato al dominio tartaro la grande regione che dal basso Volga e dalla Crimea arriva fino al Caucaso; dall’altro lato nell’Ottocento si annetté gli sterminati territori dell’Asia centrale islamica (Kazakistan, Uzbekistan, ecc.) fino alle pendici del Karakorum.

Tutte operazioni bellico-espansionistiche — e di tipo colonialistico, ripeto — favorite da due dati fondamentali: il fatto che il nucleo originario slavo dello Stato russo (costituito dal triangolo Kiew, Mosca, Novgorod) mancava di qualunque confine geografico preciso, e la superiorità militare che le davano gli armamenti moderni di cui era in possesso.

Questo singolarissimo dato storico-geografico ha voluto dire innanzi tutto uno Stato con una formazione per aggregazioni successive di parti tra loro diversissime e multietnico come nessun altro Stato europeo: si pensi che tutt’oggi — vale a dire anche dopo le secessioni seguite alla fine dell’Unione sovietica — nella Federazione russa esistono circa duecento (dicesi duecento) differenti gruppi etnici. Ma proprio perciò ne è venuta fuori una statualità che ha introiettato nel proprio modo d’essere e in quello dei suoi gruppi dirigenti due disposizioni patologiche: da un lato la perenne paura della disintegrazione, del disfacimento dall’interno, il perenne sospetto che qualche potere straniero trami per favorire tale disfacimento; e dall’altro — precisamente al fine di esorcizzare una simile paura — la convinzione ossessiva circa la necessità di un accentramento assoluto del potere, il bisogno rassicurante del governo forte, del pugno di ferro. Insomma: l’autoritarismo come requisito per l’esistenza stessa dello Stato e l’uso della forza come la sua istintiva modalità d’azione.

Tutto pur di scongiurare quello che dopo la fine del comunismo i governanti russi avvertono come il pericolo sospeso sul capo del loro Stato per effetto della sua stessa vicenda originaria: dopo essere stati abbandonati da tutta l’Asia sovietica di un tempo, vedersi abbandonati anche dall’Ucraina e dalla Bielorussia e in questo modo ridotti alla Moscovia del XVI secolo con alle spalle solo l’enorme e spopolata Siberia confinante per oltre 4 mila chilometri con la Cina. Una prospettiva tutt’altro che rassicurante.

È per l’appunto la natura geograficamente e storicamente composita e «dispersa» dello Stato russo di cui ho appena detto, il suo carattere assai più «imperiale» che «nazionale», è questo dato che spiega il fascino che sempre ha esercitato sulla sua società, ma in specie sulle sue classi colte e politiche, il richiamo all’universalità. Il fascino, cioè, di ideologie che affidavano alla Russia missioni mondiali a sfondo di salvezza: vuoi che si trattasse dell’idea di Mosca incarnazione della Terza Roma consacrata dall’ortodossia, vuoi, più vicino a noi, che si trattasse dell’Internazionale comunista incaricata di portare la rivoluzione ai quattro angoli della Terra, vuoi della missione che oggi alcuni circoli intellettuali vicini a Putin assegnano alla Russia di rappresentare la sfida della Tradizione alla Modernità nichilistica nelle cui spire mortali si starebbe dibattendo l’Occidente. È il destino degli imperi (e delle entità che aspirano esserlo): sospesi tra autoreferenzialità e universalismo non riescono a sfuggire alla tentazione di raffigurarsi come portatori elettivi di un’Idea con l’iniziale maiuscola.

Risulta ovvia da quanto fin qui detto la difficoltà strutturale per tutto il resto d’Europa di avere a che fare con la Russia. Per tutto il resto di un’Europa, tra l’altro, agli occhi della quale l’idea di potenza e di dominio da cui Mosca non sa né forse può distaccarsi, rappresenta ormai – almeno nell’ambito del suo continente – un residuo del passato quasi incomprensibile e però un residuo fin troppo presente, incombente. Di fronte al quale non si vede che altra prospettiva politica sia possibile adottare se non quella di un sostanziale contenimento. Che per essere tale, cioè efficace, non può che essere sostenuto, tuttavia, da un adeguato strumento militare. È verosimile però che oggi l’Europa possa attuare un tale contenimento e disporre di un tale strumento militare a prescindere dalla Nato, cioè dagli Stati Uniti? Questa è la domanda chiave. E se amassero ragionare sui dati della realtà invece che sciorinare i loro buoni sentimenti (che peraltro sono anche i nostri, glielo assicuriamo) è a questa domanda che i pacifisti dovrebbero cercare di rispondere.