Sfottò e altre scarse considerazioni: ecco come tre anni fa i giornali italiani accolsero l’elezione dell’ex comico a presidente. “Il comico populista”, “il Grillo dell’Ucraina”, “un impreparato totale”. Così parlarono i giornali italiani di Volodymyr Zelensky […]

(DI LORENZO GIARELLI – Il Fatto Quotidiano) – “Il comico populista”, “il Grillo dell’Ucraina”, “un impreparato totale”. Così parlarono i giornali italiani di Volodymyr Zelensky, presidente ucraino e oggi eroe nazionale (nostro, oltreché loro) in seguito all’aggressione della Russia di Vladimir Putin. Zelensky oggi è osannato ovunque, al punto che l’emotività offusca i giudizi politici. Che al contrario furono piuttosto tranchant esattamente 3 anni fa – tra l’aprile e il maggio 2019 – quando fu eletto ed entrò in carica come presidente. All’epoca i quotidiani italiani lo spernacchiavano insistendo sul suo curriculum da comico e sul debole programma elettorale. Ingredienti che, col facile assist del parallelo con il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, lo avevano relegato alla categoria dei “populisti”, che mal si coniuga con la narrazione attuale del presidente-eroe.

Il giorno dopo la vittoria alle urne, il Corriere della Sera lo presentava così: “Il fatto è che il nuovo presidente dell’Ucraina è un perfetto sconosciuto. (…) Si cerca di leggere in controluce le dichiarazioni rilasciate durante la campagna elettorale. Quelle poche frasi in cui Zelensky ha detto qualcosa di concreto, al di là delle affermazioni propagandistiche”. E ancora: “Zelensky, probabilmente, non ha per ora la minima idea di cosa fare”. Per inquadrare meglio il nuovo presidente, il Corriere si affidava Evgenij Minchenko, “uno degli analisti politici russi più acuti”. Sentenza lapidaria: “Troppo legato agli oligarchi. Non potrà fare vere riforme”.

Su Repubblica i giudizi non erano migliori. L’inviata a Kiev raccontava di “spettacoli teatrali” al posto di “comizi” e di “un programma vago, compilato invitando i sostenitori a mandare proposte sui social e diluito in pillole video in Rete”. Secondo l’editorialista Paolo Garimberti, “Zelensky, un comico che giocava a fare il presidente in uno show televisivo prima di diventarlo nella realtà, è probabilmente incompetente, sta facendo nomine ministeriali altamente discutibili, e ha un fantasma nell’armadio che si chiama Ihor Kolomoisky” (l’oligarca che ne sostenne la campagna elettorale).

Anche La Stampa non resisteva alla tentazione del calderone populista. E parlava così del futuro premier ucraino: “Come tutti i populisti, dichiara di voler sconfiggere la classe politica al potere, definita inefficiente e corrotta”.

Tra i giornali più duri con Zelensky c’era Il Messaggero. In un titolo del marzo 2019, Volodymyr era “il comico populista che sogna la presidenza”. Poi ecco un’inchiesta per svelare gli agganci con Kolomoisky: “L’enigma Kolomoisky, l’ex oligarca che ha portato un attore al potere”. Nell’articolo si elencavano tutte le ombre relative al principale sponsor di Zelensky, “l’oligarca fuggiasco in Israele”, “estremamente discusso per i suoi affari non sempre chiari”, tipo quello con la squadra di calcio del Dnipro: “Alcuni componenti del team non sono stati pagati e la Uefa ha emesso sanzioni pesantissime”.

Gli scandali e il paragone con Grillo non potevano che eccitare le ironie del Giornale, all’epoca ancora diretto da Alessandro Sallusti (oggi a Libero). Il titolo uscito il giorno dopo la vittoria alle urne rende bene l’idea della considerazione del personaggio: “C’è poco da ridere: il Grillo dell’Ucraina doppia Poroshenko”. La prima colonna del pezzo riusciva a insultare Zelensky e al contempo elogiare Putin: “Quando si parla di Ucraina, la tentazione di rinunciare a capirci davvero qualcosa e abbandonarsi a superficiali ironie è sempre forte. Quasi che avesse ragione il presidente della Russia, per il quale l’esistenza stessa dell’Ucraina indipendente rappresenta un insulto alla storia”. Grazie a “un programma populista buono per tutti i gusti”, si raccontava che Zelensky era riuscito a mimetizzare i suoi loschi affari: “Pochi si accorgono del legame di Zelensky col ricco imprenditore Kolomoisky, acerrimo nemico di Poroshenko, che gli mette a disposizione il suo canale televisivo ed è sospettato di voler governare al posto del ‘servitore del popolo’”. Poche settimane più tardi, i toni restavano gli stessi: Zelensky era ancora “fedele al suo stile populista”.

Anche Il Foglio si univa al coro degli scettici: “Si è presentato come il candidato anti-corruzione, l’anti-establishment, l’outsider contro la politica tradizionale, contro il vecchio. Ma alle sue spalle ha il vecchio, ha l’establishment”. Di nuovo Kolomoisky, a fare il paio con le magagne dello stesso Zelensky: “È a sua volta proprietario di alcuni studi cinematografici in Russia e anche di una villa in Versilia con quindici stanze mai inserita nella dichiarazione dei redditi”. Nessun dubbio sulla connotazione politica dell’uomo: “È populismo, né potrebbe essere altrimenti da parte di uno che per metà dei suoi 41 anni ha fatto ridere le platee”. Da qui la messa in guardia sul “rischio eterno del populismo”, ovvero “l’accentramento di potere” per la verità “già evidente” dai primi passi di Zelensky.

Insomma a sintetizzare il clima mediatico intorno a questo presunto evasore, populista, nonché dispotico giullare di corte, arrivava in soccorso Il Tempo: “Poveri ucraini, messi così male da votare il comico”. Occhiello: “Il Grillo locale sbanca le elezioni”. Il suo programma era ridotto a “prediche moralistiche spruzzate di appelli a voltare pagina”, “denso di slogan azzeccati ma povero di spunti concreti”. Poi fu la guerra. E tutto cambiò.