(Francesco Erspamer) – Il problema strutturale del mondo attuale è l’emarginazione o cancellazione della politica. Politica deriva da polis, che in greco significava città-stato e che in seguito ha indicato anche Stati più ampi e complessi e tuttavia chiaramente delimitati da confini geografici e culturali; né gli imperi né la globalizzazione sono polis e si capisce dunque che non abbiano bisogno della politica: gli basta la forza bruta, ai primi soprattutto militare ed economica, alla seconda finanziaria, mediatica e tecnologica.

Ma politica ha anche un altro senso: quello di disciplina che studia e teorizza i modi in cui si può organizzare e gestire uno Stato. Una disciplina, per essere davvero tale, comporta preparazione, competenza, rigore, apparati di controllo: deve insomma disciplinare; si capisce che, con l’eccezione di pochi ambiti scientifici, oggi non sia di moda. Anche nei comportamenti il valore supremo è anzi il suo opposto, la libertà, sia per la destra libertaria e liberista (negazione sia del fascismo che del conservatorismo e tradizionalismo) che per la sinistra liberal e radicale (negazione del socialismo): entrambe celebrano una libertà intesa come diritto inalienabile (vedi il documento fondativo degli Stati Uniti) nonché individuale e individualistico di essere e sentirsi quello che si vuole, anche ignoranti, superficiali e asociali.

Ricordate l’articolo 49 della Costituzione? «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Spero vi siate accorti che dai primi anni novanta, ossia dal colpo di stato liberista che impose una riforma elettorale incostituzionale che creò un parlamento illegale che immediatamente autorizzò la devoluzione della sovranità italiana alla Banca Centrale Europea e alla Commissione europea, dicevo, dai primi anni novanta i partiti (che peraltro non chiamano più sé stessi con quel nome) non rappresentano più l’opportunità concessa ai cittadini di aggregarsi per tradurre in azione politica diverse concezioni del mondo, bensì club personali fondati e gestiti da ricche celebrity annoiate e convinte (un mantra liberista) che le qualità e le virtù pubbliche coincidano con il successo materiale privato.

Certo, niente vieta e deve vietare a dei comici o economisti della Goldman Sachs o figli di papà (nella fattispecie di mammà) o magari bibitari di diventare dei politici (ai miliardari invece lo vieterei per legge, a meno che prima non donino allo Stato tutti i loro beni): ma al prezzo di una lunga educazione ideologica e di una gavetta pratica, in altre parole del riconoscimento che la politica è una disciplina e in quanto tale richiede disciplinamento, come la medicina o la musica o lo sport o la cucina. L’alternativa è l’incompetenza al potere, con soluzioni improvvisate invece che studiate e, a compensare una tragica mancanza di idee e di capacità, un uso massiccio della propaganda mediatica e della pubblicità per eliminare le ultime tracce di buon senso, di moralità, di cultura (sia alta che popolare), di solidarietà.

I liberisti (ripeto, di destra e di sinistra) hanno liberalizzato la politica. Serve un nuovo partito che politicizzi la libertà, facendola tornare un valore collettivo e una responsabilità invece che un’autorizzazione all’egoismo e all’edonismo.