Dossier America Latina. Tra voto, movimenti, colpi di Stato. Un filo rosso. A legare i diversi Paesi, il tentativo di rendersi liberi dal “mercato”, dalle “mani invisibili” che lo hanno controllato finora […]

(ALESSANDRO DI BATTISTA – Il Fatto Quotidiano) – “Essere giovani e non essere rivoluzionari è una contraddizione biologica” disse Salvador Allende. Il 35enne Gabriel Boric, neo-presidente del Cile, giovane lo è senz’altro. Chissà se sarà rivoluzionario dato che in politica non mancano i giovani stagionati dalle perversioni del potere. Boric dalla sua non ha soltanto l’età. Ha un consenso popolare che sarebbe imperdonabile sperperare, ha solide radici ideologiche e la tempra di chi è nato a Punta Arenas, sullo Stretto di Magellano sferzato dai gelidi venti patagonici. Il punto è che essere realmente rivoluzionari, in un continente in parte ancora succube delle decisioni prese dal Dipartimento di Stato Usa, non è facile. E non basta un pugno chiuso o un minuto di raccoglimento davanti a quella statua di Allende che si trova davanti all’ufficio dove l’ex-presidente si sparò con il fucile che gli regalò Fidel Castro per non cadere vivo nelle mani dei golpisti. Per essere rivoluzionario oggi in America Latina non serve la retorica, serve il coraggio, in primis quello necessario per lottare per la sovranità.

Sebbene in Italia vengano considerati “sovranisti” politici pavidi e asserviti alle grandi lobbies industriali, in America Latina la “soberania”, la sovranità, è un concetto spiccatamente di sinistra. Non a caso molti leader che hanno tentato di costruire politiche sovrane si sono guadagnati l’inimicizia, e a volte la condanna a morte, da parte di gruppi di potere liberisti.

A Chimorè, nel Tropico di Cochabamba, c’è uno dei mercati di coca più grandi di tutta la Bolivia. Ogni giorno ne arrivano a quintali. Le foglie di coca (che nulla hanno a che vedere con la cocaina) vengono pesate, registrate, imballate e poi spedite a tutti i mercati andini, a cominciare da quelli di La Paz. La maggior parte dei boliviani, soprattutto sugli altipiani, masticano foglie di coca. La coca aiuta ad affrontare il freddo e il mal di testa causato dall’altitudine. Sebbene una parte della produzione di coca finisca nel narcotraffico – e c’è chi accetta tutto ciò perché la vendita di droga è un modo per far entrare valuta pregiata nel Paese – molti contadini sopravvivono grazie alla produzione di coca. Prima era proibito piantarla. Poi, nel 2008, Evo Morales, all’epoca presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia, cacciò dal Paese l’ambasciatore Usa e la Dea, la Drug Enforcement Administration, l’agenzia federale anti-droga americana. Morales, già leader del sindacato dei cocaleros, una volta diventato Presidente, denunciò le ingerenze di Washington sulla politica economica boliviana, realizzate da quelle agenzie americane (Dea e Usaid in primis) le quali, a parer suo, con la scusa di sostenere il Paese nella lotta al narcotraffico e alla povertà, realizzavano attività di cospirazione. Quel che è certo è che, nonostante errori e forzature da parte di Morales, Washington ha provato in ogni modo a realizzare un cambio di governo in Bolivia soprattutto da quando La Paz ha nazionalizzato il settore petrolifero e quello del litio, l’oro bianco, il carburante del prossimo secolo.

Gli Stati Uniti hanno tollerato (e spesso promosso) ogni genere di colpi di Stato. Hanno sostenuto dittatori, avallato violazioni di diritti umani, hanno chiuso un occhio di fronte al terrorismo di Stato (o di Stadio per ricordare el Estadio Nacional trasformato in campo di concentramento dai golpisti dopo la caduta di Allende), ai desaparecidos, alla sistematica eliminazione degli avversari politici. La sola cosa che non hanno mai tollerato sono state le nazionalizzazioni. Nel 1954 Allen Dulles, direttore della Cia nonché azionista della United Fruit Company (l’attuale Chiquita), organizzò il colpo di Stato che depose Jacobo Arbenz, il presidente del Guatemala democraticamente eletto. Arbenz aveva osato espropriare alla United Fuit Company i terreni incolti per distribuirli a migliaia di campesinos che morivano di fame.

Cinque anni dopo, a Playa Giron, sulle coste meridionali di Cuba, sbarcarono 1500 esuli cubani armati e addestrati dalla Cia. L’invasione della Baia dei Porci fallì miseramente così come il tentativo di rovesciare il governo Castro, reo di aver nazionalizzato le banche dei Rockfeller, le raffinerie delle compagnie Usa e la West Indies Sugar, l’impresa – tra l’altro proprietà di George Herbert Walker Jr, zio di Bush padre – che controllava gran parte della produzione di zucchero dell’isola.

Anche il governo Allende venne attaccato per la stessa ragione. L’11 luglio 1971, ad appena otto mesi dal suo insediamento e due anni prima del golpe di Pinochet – anch’esso avallato dalla Cia – il Congresso cileno aveva approvato la nazionalizzazione del rame, la principale risorsa del Paese. Nei mesi successivi, Allende implementò il programma di nazionalizzazioni. Vennero nazionalizzate le banche, le compagnie di assicurazione. Poi i trasporti, l’industria siderurgica, le telecomunicazioni. Ogni progresso del programma coincideva con un nuovo chiodo conficcato sulla bara di Allende e l’11 settembre 1973 la cassa venne chiusa definitivamente con dentro le speranze dei cileni che da lì in avanti avrebbero conosciuto una delle dittature più sanguinarie del continente, ovviamente, benedetta da Washington.

Per non parlare del Venezuela. Se Chávez non avesse nazionalizzato l’industria petrolifera – in particolare i giacimenti della Faja petrolífera del Orinoco – e se Maduro non avesse proseguito sulla stessa strada, nessuno avrebbe imposto sanzioni a Caracas, nessuno avrebbe riconosciuto un presidente-fake come Guaidó e il Venezuela verrebbe descritto come un Paese sicuro e accogliente. Tra l’altro per aver comprato un po’ di petrolio da Chávez, oltretutto a un prezzo vantaggioso, si è giocato il posto Manuel Zelaya, presidente dell’Honduras deposto, nel 2009, da un colpo di Stato avallato dalla Clinton. “Le grandi imprese petrolifere americane si sono sentite aggredite dalla mia scelta. Per questo la Cia e il Comando Sud hanno pianificato il colpo di Stato”. Sono parole che Zelaya mi disse personalmente quando ci incontrammo, nel 2019, a Tegucigalpa. Nessun presidente Usa, nessun segretario di Stato, nessun direttore della Cia ha mai pagato per tali azioni. In compenso la Clinton, responsabile della guerra in Libia e delle sue conseguenze e, in parte, della fine della presidenza Zelaya, si permette di accusare Assange augurandosi che paghi per tutto ciò che ha fatto: ovvero raccontare verità.

Nel primo articolo della Costituzione repubblicana vi è la parola “sovranità”, ma il maistream sembra considerarla turpiloquio. Eppure la sovranità è intimamente legata al concetto stesso di democrazia. Un Popolo è sovrano se, attraverso il voto, ha licenza di incidere. Quel che hanno appena fatto i cileni eleggendo Boric, un presidente con idee ben precise. Vedremo se sarà in grado di trasformarle in azioni concrete. Vedremo se sarà capace di rafforzare quello Stato sociale via via smantellato da presidenti liberisti e arrendevoli di fronte ai diktat del Fmi. Vedremo cosa sarà disposto a perdere, se la tranquillità personale ed economica sua e della sua famiglia o la faccia e i voti. Quei voti arrivati in massa dagli studenti cileni, gli stessi che sostengono l’istruzione pubblica. “Se il rame fosse cileno l’educazione sarebbe gratuita”. È uno degli slogan dei movimenti universitari del Cile. Quegli stessi movimenti che lottano affinché il litio custodito nel Salar di Atacama, resti in mano pubblica. Ebbene sì, a questo mondo c’è chi non si fida più delle “mani invisibili” e del libero mercato. Sia perché il mercato non è libero e sia perché le mani che si sono arricchite sono sempre più visibili.