(Laura Della Pasqua – laverita.info) – In un prossimo futuro non sarà più il medico a occuparsi della nostra salute, non ci dovremo rivolgere a lui per l’antibiotico, la misurazione della pressione e per la pasticca contro il colesterolo o per curare il diabete. Basterà un clic e avremo uno staff di esperti pronto a fornirci tutte le soluzioni e a inondarci di supposte, compresse e preparati avveniristici, avendo in mano, aggiornata in tempo reale, la nostra cartella clinica. Saranno i big tech, Google, Amazon, Apple i padroni della nostra salute. E in parte già lo sono.

Di noi sanno già moltissimo, grazie all’uso compulsivo che facciamo delle piattaforme sociali e di Internet. Ogni volta che ci colleghiamo a Google, che cerchiamo un’informazione online o chattiamo con un gruppo Facebook, «doniamo» ai Signori del Web una montagna di informazioni personali che, diversamente, non concederemmo nemmeno ai parenti più prossimi. Di noi i colossi di Internet sanno abitudini, stato civile, cosa mangiamo, se viaggiamo e come lo facciamo, se siamo socievoli, quali interessi abbiamo e anche quali vizi privatissimi. A questa mole di dati si stanno aggiungendo quelli sulla salute. La pandemia ha aumentato l’attenzione al proprio benessere fisico. Smartwatch, smartband, braccialetti vari che forniscono – a noi, ma anche ai giganti informatici – informazioni sul battito cardiaco, sulla pressione sanguigna, sul numero di passi giornaliero e così via, sono andati a ruba. Fanno parte della quotidianità al pari del cellulare. L’Apple watch, per esempio, raccoglie e organizza tutti i dati di benessere psicofisico per collegarli all’account personale. E Google mesi fa ha risposto acquisendo uno dei maggiori operatori del settore, Fitbit, produttore di bracciali e orologi orientati al fitness.

Sempre sotto controllo

Pochi si rendono conto che tutti questi dispositivi sono collettori di informazioni preziose. A noi sembra un servizio gratuito, al solo costo del bracciale che ci facilita la vita e aiuta a stare in forma; in realtà cediamo gratis i dati sulla nostra salute. Da tempo le big tech raccolgono direttamente le informazioni biologiche su milioni di pazienti e li combinano con i dati sulle attività ordinarie di mobilità o di consumo degli stessi soggetti, ricavando profili dettagliatissimi sull’evoluzione delle personalità e dei bisogni di ognuno.

App e dispositivi di monitoraggio della salute si stanno diffondendo rapidamente. Quello che è capitato settimane fa a Eugenio Finardi, salvato in aeroporto dal suo smartphone che ha segnalato il sopraggiungere di una fibrillazione atriale, è un esempio dell’uso virtuoso del dispositivo. Ma c’è un risvolto della medaglia perché manca una regolamentazione, con la conseguenza che viene meno la tutela della privacy. Da tempo i big tech tentano di immagazzinare più informazioni possibili sulla salute mondiale con un’attenta opera di tracciamento dei dati che gli utenti lasciano incautamente sui vari dispositivi tecnologici. Già nel 2013, Google creò Calico, un’azienda con lo scopo di capire il processo biologico d’invecchiamento e sviluppare terapie per permettere alle persone di vivere più a
lungo. Nel 2014, sempre Google lanciò le lenti a contatto connesse capaci di controllare il livello di glicemia, ma senza riscontrare il successo sperato. Amazon ha elaborato il progetto «Amazon comprehend medical» per sfruttare i dati medici di milioni di pazienti (come prescrizioni, note mediche, rapporti di patologia o persino radio) con lo scopo di estrarre, da queste fonti disparate, gli elementi chiave necessari per la diagnosi o la scelta di dosi e farmaci.

Sulla stessa linea, Apple sta sviluppando Health kit, piattaforma di condivisione dati tra gli ospedali, mediante applicazioni da questi utilizzati, e che dovrebbe servire a ricostruire l’anamnesi dei pazienti. Ha suscitato scalpore la notizia del coinvolgimento di Google nell’attività di raccolta di dati personali di pazienti in molti ospedali statunitensi. All’insaputa di medici e malati, il colosso di Mountain View avrebbe immagazzinato i dati contenuti in cartelle cliniche di pazienti di 21 Stati Usa, all’interno di un progetto noto con il nome di Nightingale. Google ha sostenuto che tutto era perfettamente conforme alla legge federale sulla portabilità dei dati sanitari, che consente agli ospedali di condividere informazioni sanitarie con partner commerciali al fine di permettere alla struttura stessa di portare avanti le sue funzioni mediche.

L’algoritmo farà ricette

La domanda inquietante è: in un prossimo futuro la nostra salute sarà appesa alle diagnosi effettuate dagli algoritmi? La tendenza di affidarsi più alla tecnologia a buon mercato che alla medicina ufficiale è propria dei nostri tempi e risponde in parte alla protervia dell’autosufficienza e alla sfiducia nella competenza. Negli ultimi anni, ma soprattutto con il Covid, c’è stata una esplosione delle applicazioni sui cellulari che riguardano temi della salute. Insegnano a come superare l’ansia e lo stress, offrono con la stessa facilità consigli su come superare la timidezza in pubblico e come vincere la depressione. L’app Driver utilizza la realtà virtuale per trattare la paura di guidare attraverso la riproposizione al paziente di diversi scenari possibili, dalla guida in città a quella in galleria. Klover si propone di far superare la claustrofobia. L’università di Milan Bicocca ha creato un’applicazione, Italia ti ascolto, per stabilire lo stress pandemico e prenotare l’incontro con medici. La facoltà di psichiatria della Columbia University ha lanciato un’app per fornire cure alla depressione tramite algoritmi. Ma secondo il neuropsichiatra Massimo Ammaniti, l’uso di questi dispositivi è negativo perché comporta che il soggetto si definisca malato senza aver avuto prima una diagnosi. Poi osserva che già i problemi della patologia psichica sono difficilmente trattabili da un medico, figurarsi con un’applicazione che ha la pretesa di dare una risposta in breve tempo e un trattamento efficace in un paio di settimane.

Tra le app più diffuse per combattere la depressione c’è Woebot, è un chatbot che dialoga con l’utente e gli chiede aggiornamenti sullo stato dell’umore e fornisce esercizi per migliorarlo. Ci sono anche applicazioni destinate ai bambini che addirittura tendono a sostituire i genitori nella funzione di rassicurarli. Una di queste aiuta a combattere la paura del buio. È una storia interattiva dal titolo Buona notte Dadà, che ha come protagonisti un bambino e alcuni minion che arrivano in suo soccorso. Anche la salute dei bambini è sempre più in mano ai Signori del Web.