E dunque l’emergenza continuerà: il governo ha “allungato” i termini dello stato d’emergenza fino al 31 marzo. E questo nonostante la legge sullo stato d’emergenza, com’è noto, preveda un termine di dodici mesi prorogabili per altri dodici e non plus ultra.

(di Silvia Truzzi – Il Fatto Quotidiano) – E dunque l’emergenza continuerà: il governo ha “allungato” i termini dello stato d’emergenza fino al 31 marzo. E questo nonostante la legge sullo stato d’emergenza, com’è noto, preveda un termine di dodici mesi prorogabili per altri dodici e non plus ultra. Termini fissati per il ragionevole motivo che l’emergenza, se diventa norma, cessa di essere tale. Nel decreto legge varato martedì non si fa cenno da nessuna parte alla legge che prevede lo stato d’emergenza, né per derogare né per prorogare. Sono citati articoli della Costituzione e mille decreti, ma la legge no (ovvero l’art. 24 del decreto legislativo numero 1 del 2018), diversamente da come era stato fatto da questo stesso governo a marzo e poi a luglio. Un modo un po’ troppo disinvolto per aggirare i termini perentori di cui sopra, perché si tratta di una modifica “tacita” della legge.

Se state pensando che sono solo tecnicalità e dunque questioni di lana caprina, passiamo dalla forma alla sostanza: di fatto così si normalizza lo stato d’emergenza. Cosa che è una evidente contraddizione in termini. Ma non solo. La materia è delicata perché con lo stato d’emergenza si possono “toccare” con più facilità le libertà fondamentali. Forse si poteva trovare un modo meno pasticciato per prorogare i poteri del Cts e del Commissario straordinario. Senza voler notare, poi, che il Parlamento ha 60 giorni per convertire in legge il decreto: un lasso di tempo che copre una buona parte del nuovo stato d’emergenza. Per ipotesi è anche possibile che il decreto non venga convertito e che i suoi effetti non vengano fatti salvi, il che produrrebbe un discreto caos (che in greco, mica per niente, vuol dire vuoto). Naturalmente non succederà: al governo ci sono i migliori, sostenuti da una maggioranza che copre praticamente l’intero arco costituzionale e in totale assenza di contropoteri, tipo il sistema dell’informazione (vittima di una collettiva freccia di Cupido).

La faccenda della proroga è stata legata in queste settimane alle tormentate sorti del Quirinale: vigente un nuovo (o vecchio) stato d’emergenza, secondo alcuni commentatori, il premier sarebbe legato alla sua poltrona di Palazzo Chigi come non era stato nemmeno Vittorio Alfieri ai tempi del “volli, volli, fortissimamente volli”. Secondo altri, invece, la “proroghina” di soli tre mesi darebbe a Mario Draghi la possibilità di traslocare serenamente al Colle in febbraio perché il suo successore avrebbe tutto il tempo di organizzarsi. A questo proposito, va segnalata un’intervista di Sabino Cassese a Repubblica, in cui il giurista non manifesta tentennamenti a proposito del garbuglio che si presenterebbe nel caso fosse Draghi, nella nuova veste di Capo dello Stato, a gestire le consultazioni per la formazione di un nuovo governo (causato dalla caduta del suo). Nessun dubbio, le consultazioni le fa lui: “È un presidente in carica, le fa lui dopo avere giurato”. Ma infatti, che problema c’è? Draghi si dimette, salta il fosso del Colle e poi, consultando i partiti, sceglie il suo successore. Che nel caso fosse il ministro Daniele Franco sarebbe una successione dinastica. Non vogliamo nemmeno pensare ai fiumi d’inchiostro che si sarebbero versati se il protagonista di queste acrobazie istituzionali fosse un altro presidente del Consiglio. Ma dopo un anno di silenzi di Mario Draghi, abbiamo capito che lui è come la splendida Virna Lisi nel famosissimo Carosello del dentifricio Chlorodont: con quella bocca può dire (o non dire) quello che vuole.