(Giuseppe Di Maio) – Quando uscì tra gli applausi di palazzo Chigi, le poche parole che pronunciò servirono ad auspicare un governo coeso che potesse fare scelte politiche; furono per gli amici del PD e Leu, con i quali si augurava di continuare insieme il percorso di riforme; e infine per il M5S, dicendo a tutti noi: “ Io ci sono e ci sarò sempre”. Fu in tutti i sensi un’uscita di scena onorevole, senza pretese, risentimenti o minacce. E già sentimmo tutti, istantaneamente, che non avere più Giuseppe Conte era una perdita consistente per il Movimento e grave per la nazione.

Con tutta probabilità lo sentì anche Grillo, che qualche giorno più tardi già lo pregava di organizzare il nuovo M5S, regole e Statuto, linee guida, iscritti e territorio. Come se la sua creatura non avesse regole, né possibilità intrinseca di autorinnovarsi. Come se non ci fosse stato un anno di Stati generali, non si fosse deciso di cambiare l’assetto della governance, e non fossimo in attesa di un voto finale. Quello che da allora è successo è noto a tutti. E cioè la lunga diatriba con Rousseau e Casaleggio, conclusasi con la creazione di “Controvento”, il manifesto in cui l’erede del cofondatore riscriveva le regole per il M5S.

E di regole i 5 stelle ne hanno ormai fin sopra i capelli. Il primo fu il “Non Statuto”, antesignano dei precetti che il Movimento dovette darsi per legge dello Stato, e costretto dagli avversari politici. Difatti Beppe Grillo e i suoi seguaci furono sempre intolleranti alle carte fondative. A loro sarebbe bastato il rapporto con la gente, il guru che dal palco sapeva scatenare la passione civile, anche se le passioni suscitate erano contraddittorie, anche se ognuno aveva un’idea sua della rivoluzione delle stelle. Poi venne lo Statuto, con Assemblea, Capo politico, organi controllori e Garante, e Roberto Fico andò in giro per l’Italia a spiegarci la differenza tra Movimento 5 stelle e Meetup.

Finché si vinceva nessuno riteneva opportuno aggiornare le regole, finché si vinceva le critiche dei dubbiosi del sistema grillino erano solo boutade di disfattisti, di troll falsi pentastellati. Ma poi, dal fondo dei sondaggi, arrivò il governo col PD e le successive dimissioni di Di Maio, così istantaneamente si parlò di cambiare i regolamenti, fino al punto di chiamarli “rifondazione”. L’esperienza di governo aveva duramente provato i principi del Movimento, e la necessità di mettere ordine tra ciò che si credeva e ciò che si faceva divenne indispensabile. Solo che far costruire regole ad una base libera e sovrana poteva essere micidiale. E allora, con tutto ciò che nel Movimento c’era da cambiare, il dibattito si concentrò sul potere, sulla governance. Un anno e mezzo e l’arcano non è stato ancora risolto.

Dopo l’investitura di Grillo, un Giuseppe Conte inizialmente costituente ha raccolto anche la leadership del Movimento e ha scritto le regole di un partito. Ma forse ha fatto una cosa peggiore: ha fissato le linee ideali e politiche che prima si chiamavano “anime”. E questo era troppo per il pasticcione proprietario che chiama tuttora democrazia diretta il suo potere di sostituirsi alla volontà degli iscritti e della gente. Perciò ancora un manipolo di saggi che correggono il saggio Conte. Ecco il difficile cammino della transizione in partito che terminerà solo con l’emancipazione da Grillo e dalle sue contraddizioni. Finirà solo con la fine del potere dei sentimenti sulla ragione, dei rimpianti della prima ora, e della riconoscenza per Beppe. Poiché una cosa è apprezzarlo come autore del cambiamento, altro è doverlo sopportare come deus ex machina. Quei sette dovranno dirglielo: Beppe, fatti da parte.