(di Francesco Erspamer) – È chiaramente un mio limite e non pretendo affatto che tutti siano come me né di avere ragione. Ma neppure accetto di essere obbligato a uniformarmi per non apparire antiquato o politicamente scorretto, come richiesto dalla dittatura mediatica del neocapitalismo. Mi riferisco alla mia reazione a un’intervista del “Guardian” (forse l’unico quotidiano appena decente del mondo occidentale) a Ryan Lochte: “I was headed to a dark, dark place”, qualcosa tipo “Stavo andando sempre più a fondo”. Lochte, per chi non lo sapesse e ammettesse di non saperlo (come io stesso prima di leggere l’articolo), è il nuotatore al secondo posto per numero di medaglie olimpiche. Ma a noi perché ce ne dovrebbe fregare se un privilegiato, bello, ricco, giovane, famoso, atletico, fortunato, che per anni si è ubriacato al punto da rischiare di distruggere la sua vita, adesso ci comunica di avere messo su famiglia e la testa a posto e di sperare di partecipare ai giochi di Tokyo? Mica ha donato tutto ai poveri o agli alcolisti anonimi, mica ha deciso di dedicare la sua esistenza a una causa, mica la sua vantata vocazione di “uomo di famiglia” è comprovata dai fatti visto che l’ha scoperta da pochissimi anni ed è ancora ben al di sotto della durata media dei matrimoni stelle e strisce (otto anni; in Italia, malgrado il rapido declino post berlusconiano, siamo sui diciotto).

Macché: il fatto che promuova sé stesso nella nuova veste perbenista invece che in quella trasgressiva ci viene spacciato come un indice di redenzione.

Di articoli o servizi così ne appaiono ogni giorno, anche sui giornali italiani, ed è per questo che ne parlo. Perché rivelano il disegno liberista, fin dai tempi di Margaret Thatcher: spostare l’attenzione e le priorità della gente dalla società all’individuo, dal bene comune al piacere privato. “Io stavo andando a fondo”. “Io”. Sempre e solo “io”. Una declinazione al plurale è ormai impossibile, anzi sconveniente, proibita, meglio, da proibire: lede la “privacy” (lo ripeto da tempo, inutilmente: ogni anglicismo è una truffa) o potrebbe costituire un caso di appropriazione culturale. Il culto delle celebrity è un culto dell’io, uno sdoganamento dell’egoismo e del solipsismo, al fine di dissolvere i legami di appartenenza e di solidarietà e frantumare la collettività in una massa di singolarità, lavoratori in astiosa competizione uno con l’altro e consumatori psicologicamente succubi delle multinazionali, della pubblicità, delle mode.

Ancora non hanno vinto ma per impedirglielo servirà molto di più della capacità di resistere alle tentazioni del demonio: servirà la volontà di rifiutare le tentazioni del gossip.