(Luca Telese – stradenuove.net) – Il direttore Telese incontra l’avvocato Paola Balducci, ex componente del CSM): Costituzione e riforme, la proposta per trovare un grande compromesso sulle piccole-grandi soluzioni che già abbiamo. Avvocato Balducci, si farà mai questa benedetta, e grande riforma della giustizia che l’Italia attende?

(Sorriso). Credo proprio di sì. Non sarà troppo ottimista?

(Sospiro). Credo che se non si fa ora sarà difficile che si faccia mai. E lei pensa che si riesca a fare una riforma di questo tipo avendo nello stesso governo la Lega e il M5S, Forza Italia e il Pd?

(Altro sospiro). Se dovessi ragionare sulla base dei rapporti di forza politico-ideologici ammetto che le difficoltà sembrano insuperabili. Mentre lei su che base ragiona, invece?

(Pausa quasi teatrale). Io ho grande stima per la ministra Cartabia. La conosco, ci ho lavorato. Apprezzo la sua sensibilità. Su cosa?

Su temi cruciali su cui lei lavora da anni, per esempio. Il Fine pena mai. L’Ergastolo ostativo. I Riti alternativi. Abbiamo un ministro che sa di cosa parla. E questo le basterà per cambiare le cose?

Non so se basti. Ma so che se c’è una che può riuscire in una missione impossibile è lei. Perché?

Guardi, essenzialmente per tre motivi. Quali?

Il primo. Il ministro Cartabia è molto attento ai temi dell’innovazione legislativa. Il secondo: conosce tutto sul piano giuridico. E poi il terzo, soprattutto. Quale?

Gli elementi per accorciare i processi, risolvere il problema dell’entità e delle modalità della pena, ci sono già tutti. Solo che non vengono usati come si dovrebbe. Se ha tempo le spiego perché.

Vado ad intervistare Paola Balducci nel suo ufficio di Corso Vittorio Emanuele, a Roma. Nel palazzo che fu di Giulio Andreotti la sua stanza al quinto piano ha due bellissime finestre affacciate sul Tevere, nel cuore della Capitale monumentale. Quella davanti alla sua scrivania sembra un quadro, una cornice che racchiude Castel Sant’Angelo, che fu una fortezza, ma anche una prigione. Glielo faccio notare, e lei sorride: “Siamo in tema”. La Balducci è stata membro del CSM, ha una lunghissima esperienza forense, ma quando iniziammo il dialogo sulla riforma possibile, per farmi capire, parte dal più minimale degli esempi. Si può uscire dalla tenaglia ideologizzata garantisti-contro-giustizialisti?

Si deve. Le faccio un esempio quasi banale, non di un grande processo, ma quello di un gioco di ragazzi finito male. Prego

Ho difeso un adolescente, poco tempo fa: quindici anni e un’accusa terribile sulla testa. Quale?

Revenge porn. Ahia.

Lui e la sua fidanzata, coetanea, si erano scambiati – consensualmente – delle foto di nudo, parliamo di immagini dei genitali, una pratica purtroppo più diffusa di quanto non si pensi tra i giovani. E poi?

Poi i due hanno rotto. Dopo la fine della coppia queste foto sono girate tra gli amici, sono arrivate ai genitori di lei, il ragazzo è stato denunciato, ha rischiato una condanna terribile. E come è finita?

Siamo riusciti a dimostrare che non c’era nessuna volontà persecutoria da parte sua. Lieto fine dunque.

Già. Ma ci pensi solo un attimo: quello stesso processo poteva concludersi diversamente per lui, e la sua vita in quel caso sarebbe andata distrutta. Segnata da una macchia indelebile. Intende una macchia reputazionale

Certo. Vai a cercare lavoro, con quel reato nel tuo curriculum. Non te la togli più. Tutto già visto, purtroppo. calzante, ma perché partiamo da un caso così per parlare della riforma? Esempio

Perché un piccolo caso mi ha dato modo di riflettere e mettere a fuoco un grande problema, che io ho da tempo ribattezzato “il panpenalismo”. Interessante. E come spiega questo neologismo?

Il legislatore, ovvero i politici, hanno preso l’abitudine di introdurre nuove fattispecie di reato o anche più semplicemente pene più gravi, con interventi mirati e circoscritti ad un tema “caldo”. Come spiega il fenomeno?

Si sono convinti che crei consenso. Perché?

Provo a spiegarlo con il loro punto di vista. Io, politico, inquadro un tema molto sentito nell’opinione pubblica, gli do un nuovo nome, lo battezzo, scrivo una legge monotematica, la faccio approvare in tempi relativamente rapidi, dichiaro cancellato il problema. Riscuoto il consenso e il plauso della critica e mi illudo di averlo risolto. Però lei dice che quella singola legge non basta?

Ma assolutamente no, che non basta. Torniamo per un attimo ai due fidanzati, un tempo consenzienti, che poi litigano. Certo.

Senza saperlo camminano entrambi sul campo minato di un nuovo terribile reato. Ma culturalmente non lo conoscono. In certi casi – parlo dei ragazzi – nemmeno lo capiscono. Nessuno glielo ha spiegato. Nessuno, fra i più giovani, ne capisce la ratio. Addirittura?

Parliamo di una generazione che vive attaccata in modo simbiotico ai cellulari. Che declina la socialità con la condivisione. Il legislatore pensa di risolvere il problema con una nuova fattispecie penale a tutela delle vittime. Però…

Poi però quando i giovani imputati ci finiscono dentro e si ritrovano in un dramma, con un rischio di condanna durissima, vivono dei processi che possono finire in qualsiasi modo, anche il peggiore. Che cosa sta cercando di dirmi?

Che una riforma deve intervenire su più livelli, o non funziona. Deve toccare le architetture, e non i singoli elementi. Deve intervenire sull’educazione e sulla consapevolezza dei cittadini e non solo sull’onomastica ad effetto del panpenalismo e sulle nuove pene. Altrimenti ?

Altrimenti ci prendiamo molti applausi, pensiamo di fare cose molto giuste e buone – e magari eravamo anche animati da ottime intenzioni – ma poi non risolviamo il problema. Anzi, lo rendiamo più deflagrante. Perché?

Perché non puoi tenere nella stessa fattispecie di reato i nuovi persecutori della gogna mediatica, i nuovi protagonisti dello stupro e i fidanzatini che passano dall’erotismo social ai dispetti. Perfetto. Facciamo un altro esempio.

Il codice rosso. Ma come? Proprio lei mi parla della legge più acclamata a tutela delle donne?

E se le dicessi che proprio molte donne restano deluse? Ma non era giusta l’idea della corsia preferenziale, e temporale, per i reati contro le donne?

Ecco, vede? Una ottima idea, sulla carta. Una ottima intenzione. E poi però che succede?

Poi, dopo due anni di rodaggio della legge nei tribunali gli stessi magistrati ti dicono che nel limite delle 48 ore immaginato dal legislatore non riesce mai a chiudere una indagine preliminare. Si può prorogare

È vero. Ma facendo così si proroga, si proroga, si proroga, e si torna ai processi lenti. L’aspettativa di una giustizia lampo viene disattesa, con grave danno per le vittime. Perché più grande l’aspettativa, sui resti che feriscono la persona, più grande è la delusione quando la giustizia non arriva.

E qui torniamo all’architettura del sistema.

Esatto. Se non ripensi tutto il sistema non riesci a ristrutturare alcuni singoli elementi, o anche un solo frammento del processo penale. Quindi la situazione è disastrosa.

(Sorriso). No. Proprio per quello che le ho detto prima. In forma incompleta o sperimentale, o ridotta, o limitata, il sistema ha già in corpo degli anticorpi che possono guarirlo dai suoi mali. Cioè?

Abbiamo, già codificati dalla legge, molti strumenti che possono aiutarci a risolvere le vere sciagure del nostro attuale sistema giudiziario. Quali?

Il più grande di tutti? Ormai è l’irragionevole durata dei processi. E immediatamente dopo, la necessità di rendere compatibile la brevità dei processi e le garanzie degli imputati. Mi sembra un’impresa titanica, partendo dalla situazione che lei ha descritto.

E invece se si mettono a fuoco problemi e soluzioni non è così difficile. Dobbiamo dimostrarlo.

Le faccio altri esempi di casi che, per motivi molto diversi, sono molto discussi in questo periodo. Il caso Ciro Grillo?

Esatto. Tocca molti temi, ma il primo è questo: due anni di indagini preliminari, per un sospetto stupro sono insostenibili, e intendo insostenibili per tutti. Di chi parla?

Di tutti i soggetti coinvolti: accusa, difesa, vittime, imputati, persino dei testimoni, che, come abbiamo visto in questo caso, sono stati sospettati di aver cambiato versioni. Ma due anni è un secolo! Per un testimone?

Certo. Per tutti. E dunque per chi indaga. Un conto è venirti a chiedere: cosa hai visto quella sera, 48 ore dopo. Un altro è farlo nel 2021 parlando dell’estate 2019! Certo.

Adesso pensiamo ad una ragazza che accusa, e che per due anni sa che ogni sua parola viene messa al vaglio. Ogni storia pregressa. Ogni bacio. E -per di più – con la certezza che tutto questo finirà probabilmente sui giornali. Il quarto grado di giudizio: i media.

Ma ci rendiamo conto? Ci sono processi la cui prima sentenza viene emanata sui media prima ancora del possibile rinvio a giudizio. Pensi alla tragedia della funivia. 48 ore dopo, leggendo i giornali, c’erano già le condanne. Ecco, basterebbe questo per spiegare come la sproporzione tra il processo mediatico e quello giudiziario sembrano incolmabili.

Esatto. Ma voglio illustrare i paradossi solo per spiegare che si può arrivare alle soluzioni. Proviamoci.

Ero nella commissione che ha lavorato alla riforma del codice di procedura penale. Ripeto: basterebbe scommettere di più sulle soluzioni che ci sono già. Ad esempio.

La parola magica è quella che ho evocato prima: Riti alternativi. Quelli già previsti?

Ma certo. Basterebbe aumentare il ricorso al rito abbreviato senza aspettare i tempi lunghi del dibattimento. Lo dice proprio lei, da avvocato?

Certo. Perché lei immagina l’abbreviato come è stato percepito in questi anni. Una rinuncia a dei diritti di difesa -sintetizzo brutalmente – in cambio di uno sconto di pena. E non è questo?

(Sorride). È diventato “anche” questo, perché è l’uso che se ne è fatto. Ma non era l’uso giusto. E invece che uso se ne può fare?

Il processo cartolare deve essere tutto svolto con rito abbreviato. Perché il dibattimento di fatto non c’è. Perché se le prove sono documentali non hai dibattito con i testimoni. Spieghiamolo ai profani.

Pochi sanno che nel processo cartolare, quando hai bisogno di un contraddittorio per la prova, il testimone deve ripetere a memoria quelli che c’è già scritto nelle carte! Ad esempio?

I processi per Bancarotta fraudolenta. Ma allora facciamo questo processi solo in rito abbreviato. Sono piccole riforme che producono grandi esiti perché liberano i tribunali da montagne di atti e udienze inutili. E poi?

Bisogna ampliare i margini del patteggiamento. In modo da usarlo per tagliare – anche in questo caso – processi inutili. Quando si arriva a reati che possono essere risolti in modo quasi amministrativo, abbiamo bisogno della Corte, dei collegi, del feticcio del rito processuale? Perché? A chi giova? Né alla difesa né all’accusa.

Esatto. Altro tema tabù: la sospensione del processo con messa alla prova per gli adulti. E’ uno strumento che può rivelarsi molto utile. Tema scivoloso. Perché porta fuori dal carcere.

Ma se poi il carcere si evita lo stesso, è così difficile farlo prima? Sono solo dei tabù. Che però intasano il sistema. Un altro strumento che già c’è.

L’udienza preliminare. Fatta come è pensata adesso è solo un bluff. Addirittura?

Ma certo: cos’è? Un giudice passacarte, un passaggio virtuale. E come lo si rende uno strumento efficace?

Il giudice deve avere i poteri per archiviare. E se archivia abbiamo di nuovo risolto il problema dell’ingorgo. Abbiamo evitato montagne di carta e anni di tempo. E poi?

Dopo che si è accorciato il processo, bisogna accorciare le indagini preliminari. Chi ci legge dirà: la Balducci sta impazzendo.

Mica tanto. Se sfori i termini, oggi chiedi la proroga. E poi se sfori hai ancora una possibilità, che tutti conoscono Ovvio.

Iscrivi un nuovo indagato, o un nuovo reato per un vecchio indagato e il gioco è fatto. E invece?

Il Pm deve essere obbligato dentro un termine inderogabile: riesci a provare la fondatezza? Bene. Non ci riesci? Chiudi l’indagine. Ma i magistrati potrebbero accettarlo?

Io credo di sì. Si fissa un termine concordato, e poi delle due l’una: O rinvio o archiviazione. Perché così si può non finire mai.

Oggi la parola “Attesa” sostituisce la parola “fine”. E guardi che non ci guadagna nessuno. Lei sta immaginando un grande taglio di tempi. E questo mantiene in piedi le garanzie?

Certo. Perché poi, i processi che vanno fatti, li facciamo per davvero. In grazia di Dio. E non sono una corsa alla prescrizione. Vede? Siamo arrivati al totem dei totem. La riforma più discussa della legislatura.

Vuole una opinione vera, o una opinione di comodo? Quella vera, ovviamente.

Ecco, meglio che non facciano nessuna riforma. Nooo, avvocato Balducci, che dice?

Ma certo! C’è tanta ipocrisia, c’è un enorme, inutile, dibattito ideologico, e sa quale rischio si corre? Achille e la tartaruga. Intende il paradosso di Zenone che si studia in prima liceo?

Proprio così!
Se si allunga la prescrizione si allungano anche i processi, o viceversa. E così non abbiamo risolto nulla. Non me lo dica. Sarebbe folle.

Ma è questo il rischio. Se uno dei due contendenti che si fronteggiano in Parlamento si sente colpito da questa riforma, mette in atto una contromossa per vanificarla. E allora?

Lasciamo tutto com’è che è meglio. Lo spieghi.

Oggi qualsiasi riforma si faccia per allungare i termini della prescrizione porterà ad allungare i processi. E l’equazione che porta al tilt è già scritta: processo breve prescrizione lunga. Gli strumenti ci sono già, lei dice, se c’è il consenso su come declinarli.

Ho fatto parte delle commissioni di studio da cui ha preso le mosse la riforma Orlando. Tra i tecnici si conosce già ogni soluzione possibile. Me ne dica un’altra.

Un’altra che già esiste, e che andrebbe solo implementata meglio? “La particolare tenuità del fatto”. Tecnicamente cos’è? Una attenuante di reato?

Tecnicamente è una causa di non punibilità che si fonda sulla irrilevanza del fatto, sulla sua tenuità, e che dovrebbe -e potrebbe – assorbire tutto quello che in tribunale non ci deve nemmeno passare. Pensi al “furtarello”. E poi?

Se vogliamo tagliare i processi dobbiamo costruire automatismi che producono percorsi virtuosi, non amputazioni, conflitti, o invenzione di nuovi reati. Ed ecco che siamo tornati al nostro punto di partenza, quello che lei chiama “il panpenalismo”.

Basta. Siamo affogati di nuovi reati. Gliene cito uno che grida vendetta al cielo. Quale?

L’omicidio stradale. Un reato non intenzionale, aggravato, privo di senso, davvero. E qui si potrebbe citare il caso Genovese, le due ragazze di Corso Francia, travolte e morte sul colpo.

Massimo rispetto per le vittime, ovviamente, ma il mio giudizio vuol essere tecnico più che etico. La nuova fattispecie è una vera e propria forzatura di tutto il sistema penale che ruota su concetti chiave quali il dolo e la colpa. E perché è nato questo reato?

Per il solito motivo. Ricerca del consenso, panpenalismo, invenzione di un nuovo crimine che possa sopperire a quelle disfunzioni del sistema che molto spesso impediscono alle vittime di avere giustizia. Anche qui si torna al tema che abbiamo toccato con il codice rosso.

È una specie di pronto soccorso giudiziario, giusto? Ma poi, come tutti i pronto soccorso degli ospedali che fine fanno? Sono intasati dalla mattina alla sera. E alla fine si torna al tema: non si deve arrivare in quel reparto. Bisogna curare diversamente tutto quello che può non andare in ospedale. Detto così pare una soluzione meno difficile di quello che sembra.

Se si guardano i problemi in modo giusto lo è. Tiriamo le fila del discorso?

Ho una mia idea che coltivo da tempo, e che in parte è già emersa. Il panpenalismo non risolve i problemi, li esalta. Nessuno sa che esistono questi nuovi reati. I confini sono sempre più sottili. Il risultato è complicare tutto. Mentre la soluzione è l’opposto.

La soluzione è semplificare. Uscire dai tribunali. Accorciare i riti. Derubricare i reati meno gravi. Un grande problema che si risolve con un grande compromesso sulle piccole-grandi soluzioni che abbiamo già.