(di Francesco Erspamer) – Propongo l’abolizione in Italia della Festa del primo maggio e la sua sostituzione con la Festa della movida. Non ho niente contro la movida in sé e capisco il desiderio della gente di frequentare luoghi affollati, in particolare se giovani e quindi ancora in cerca di compagni per il viaggio attraverso la vita. Mi pare dunque opportuno prendere atto che questa importante funzione sociale è ormai interamente gestita dall’industria dell’intrattenimento, senza altro fine che l’immediato appagamento delle pulsioni: dunque a livello di quello che Freud definì il principio del piacere e del dispiacere. Anche la Festa dei lavoratori era un evento sociale e un’occasione di incontro: andavo alle manifestazioni e ai comizi anche per vedere gli amici e magari conoscere qualche ragazza. Ma non solo per quei motivi: la scusa era il bisogno di costruire una società più giusta. Fa differenza: voleva dire sia che ero insoddisfatto di quella esistente, e dunque non convinto che fosse la migliore di quelle possibili come invece il Pangloss di Voltaire, sia che ero disposto a impegnarmi personalmente per cambiarla. Per il mio stesso bene ma in quanto identificato con quello comune, nonché di lungo termine. Freudianamente era il principio di realtà, ossia la capacità di rinunciare al perseguimento di un piacere effimero o di accettare qualche dispiacere momentaneo per star meglio in futuro e tutti. Un investimento nel tempo e negli altri; una volta si chiamava disciplina, sacrificio, prudenza, tutte parole desuete e concetti politicamente scorretti.

Questo significava la Festa del primo maggio ed è giusto che scompaia; per celebrare in maniera più attualista e astratta il lavoro si potrà ricorrere al Labor Day (anglicismo da conservare), il primo lunedì di settembre, a completare l’americanizzazione del paese, cosa peraltro gradita a un ampio fronte che va dalla fascista immaginaria Meloni ai liberal e uguali, con la piena approvazione dei qualunquisti che comprano su Amazon e da Ikea, preferiscono Uber ai taxi e ai servizi pubblici e il caffè di Starbucks gli sembra più cool di quello del bar sotto casa (questo soprattutto a Milano). Amarezza a parte, sono davvero convinto che per chi voglia iniziare la difficile guerra contro l’egemonia liberista sia politicamente più conveniente impedire che il circo mediatico al servizio delle multinazionali si appropri anche dei simboli di un progetto diverso, antitetico e attualmente sconfitto. Tollero i vincenti che vanno in giro con la faccia di Salvini, Trump o Cristiano Ronaldo sulla maglietta; ma i vincenti con Che Guevara li picchierei perché non gli basta vincere ma vogliono prendersi proprio tutto.

La festa dei lavoratori apparteneva a un mondo in cui il lavoro serviva per sopravvivere ma in cui si sognava che servisse per emanciparsi collettivamente e così autorealizzarsi come persone e costruire l’avvenire “secondo le leggi della bellezza”, come aveva scritto Marx. Oggi il lavoro serve soltanto a procurare agli individui, in feroce competizione fra loro, il denaro con cui potersi stordire di edonismo, consumi, droghe e altre virtualità, in modo da poter far finta di non accorgersi dell’implacabile imbruttimento della Terra. Siamo prossimi al fondo; la catabasi italiana sta per concludersi. Per risorgere occorre per prima cosa prendere atto della situazione: l’abolizione del primo maggio potrebbe costituire il trauma (“chosen trauma” lo chiamano gli antropologi: per esempio la morte di Cristo o la sconfitta alle Termopili) che marchi il passaggio dalla nostalgia alla speranza, dal dolore all’esaltazione della lotta, dalla rassegnazione alla volontà di fargliela pagare a quelli che hanno sistematicamente distrutto il paese, la civiltà, il pianeta per i loro sporchi interessi o per ignavia. Siamo pochi ma non abbiamo più nulla da perdere e quelli che dovremo combattere, alcuni per spodestarli, molti di più per liberarli, sono delle anime morte.