(Giuseppe Di Maio) – Gli irpini non parlano molto, i padovani lo fanno a bassa voce, come riferiva Goethe nel “Viaggio in Italia” a proposito dei limitrofi veneziani quando facevano silenziosamente affari tra di loro. Mario Draghi potrebbe aver ereditato dai genitori lo stile caratteristico della sua comunicazione. Ma ieri ha parlato. Ieri, con un disagio visibile, ha fatto l’inevitabile inchino alla democrazia.

Evidentemente non è nel suo carattere, o è stato abituato alla troppo comoda comunicazione scritta, ai tavoli degli interventi ufficiali della Banca d’Italia e della Bce. Il taciturno Draghi s’è finora ritagliato un personaggio al servizio di poteri privati o pubblici a cui non serve parlare con la gente, con i reali destinatari delle sue decisioni. La sua competenza sta in questo: essere ritenuto affidabile da coloro che lo hanno scelto. E l’ottimo e capace Marione, che parla poco e sorride appena, affida la valutazione corrente delle sue abilità al suo vivere schivo, defilato, a una moglie che s’intromette nelle sparute relazioni con la stampa. Se non fosse stato per quell’ inaspettato assalto della Femen, subìto sul tavolo della conferenza e che per un attimo gli ha allarmato l’espressione del viso truce, avremmo pensato che il suo sorriso sornione fosse di plastica.

Ma ieri il gobbo era un po’ più distante, la lettura incalzata da un’esposizione indesiderata, senza mascherina. Ieri si vedeva che il sostituto di Conte doveva pagare lo stipendio al sistema, agli amici di cordata, ai padroni. E si vedeva anche che non era il Presidente del Consiglio a parlare agli italiani, alle donne italiane, e agli imprenditori stanchi delle permanenti restrizioni. Era un’autorità diversa. Era quella una prova generale per un ruolo di rappresentanza. Mattarella gli passa davanti e lo incoraggia a mani strette: la sua apparizione ha bucato lo schermo, è andata. Il nuovo Presidente della Repubblica ha fatto il suo primo comunicato alla nazione.

Sì, e come spiegare altrimenti il consenso che ha immediatamente avuto dalla destra, dal centro moderato, dal centro-sinistra tirato per la giacchetta e dal M5S che ancora spera di non essere espulso dal gioco? Come spiegare che mentre Conte mieteva ancora indiscutibili risultati internazionali, già si preparava la restaurazione con le voci di un governo Draghi (anche se Draghi taceva), un governo che avrebbe messo fine alle approssimazioni e ai tentennamenti dei pericolosi giallorossi? Per uccidere la democrazia e i risultati del 4 marzo 2018 ci voleva un’autorità indiscussa, un campione degli interessi di classe, della stabilità eurocratica, che mettesse tutti d’accordo.

Ed eccolo là il primo della classe, pronto a sostituire la volontà popolare. Impacciato, ma disposto ad essere osannato dalla stampa amica, onorato dalle maggioranze e dalle opposizioni. Eccolo là il risultato dell’assassinio di Renzi, il complice finale, la scala reale col mazzo truccato. Colui che non sbaglia se chiude le scuole, non ha colpa se non arrivano i vaccini, che ha esperienza se affida la gestione del Recovery ad una società straniera… Eccolo là quello che ci porterà fino al semestre bianco. Al termine del quale, quando riapparirà a reti unificate, sarà preceduto dall’inno nazionale, l’inno dei fratelli derubati della loro inutile sovranità.