(Giuseppe Di Maio) – La rivoluzione attesa è stata scadente sotto ogni punto di vista. Chissà, forse non era una rivoluzione. C’era chi come me aspettava il mutamento dei rapporti sociali, e chi predicava alle piazze per avere una bici elettrica. C’era anche chi avrebbe predicato qualsiasi cosa, bastava che fosse lui a farlo, bastava che si fosse preso lo stipendio. Ma questi ultimi sono stati episodi, spiacevoli incidenti di percorso. Alla fine però è stato così: quella che poteva essere una rivoluzione è stata svenduta per delle “cose”, che, sebbene importanti, nulla avrebbero cambiato dei rapporti di produzione, e pochissimo della distribuzione della ricchezza.

E per delle cose Grillo ha acconsentito al governo Draghi. Non importa se queste si chiamino Recovery fund, tanto l’uso che se ne sarebbe fatto non avrebbe cambiato la società. Pertanto, stare nel governo, può servire solo a denunciare il furto di qualche accaparratore di denaro pubblico, e difficilmente ci si potrà opporre. A questo obiettivo si è sacrificato tutto, si sono infranti tutti i tabù, s’è spezzata un’unità che pareva indistruttibile. E già, lo scontro con la realtà della politica aveva bisogno di idee più precise, di un’organizzazione più solida, che non la soggettiva interpretazione dell’onestà e  lo Statuto lacunoso e ridicolo che rinvia al capriccio dei capi.

Beppe ha deciso di non stare all’opposizione soprattutto perché comincia a considerare concreta l’alleanza col PD, e aspetta semmai di lasciare il governo insieme, tutti e tre, M5S PD e Leu. Illuso! Sta facendo patti con un cartello elettorale assetato di stipendi e mazzette di prenditori. Dopo il suo reingresso sulla scena, a seguito del fallito putsch del Papeete, l’idea di avere un interlocutore affidabile nel PD si è fatta strada in lui. E ha certamente trovato sfavorevoli molti altri del M5S. Di Maio dopo qualche mese ha lasciato la guida del Movimento e l’ha consegnata ad un obbediente Crimi, il quale ci ha messo un anno a preparare gli Stati Generali.

Ma erano finti. Difatti dopo averli strombazzati come la più alta operazione di democrazia diretta, le mille idee esposte nella prima fase si sono tradotte in una scarna e finale paginetta. In cui è esposto, a mezzo di una vergognosa forma partigiana, che al capo politico potrebbe seguire un comitato direttivo. Tutto qua. La paura che il potere andasse a finire nelle mani di un attivista (come ad esempio Di Battista) era grande, e si fece di tutto per promuovere la seconda opzione. Come si sa le votazioni non hanno fregato nessuno, salvo chi crede ancora che fare click col mouse sia indispensabile per la democrazia.

Poi, le contraddizioni hanno cominciato ad esplodere. Il dissenso s’è fatto opposizione palese e il vertice è impazzito. Come al solito, quando c’è un potere abusivo, iniziano le epurazioni. E non c’è stato altro modo di mettere fine al dissanguamento se non tirare in causa un’autorità morale indiscussa. E’ stato chiamato Conte. Che però non si accontenterà di far parte di un direttivo, e di sicuro sarà il Capo politico. Dunque, non si è fatto in tempo a votarlo che già lo Statuto è stato trasgredito. E peggio ancora sarebbe, se ci chiedessero di controfirmare la nuova leadership con un voto su Rousseau. Io voterò solo se accanto alla casella del si e del no ci sarà quella del vaffa.

Insomma vaffancùlo! I tanti tentennamenti hanno tenuto nascosto la povertà ideologica finché si è potuto, ma è chiaro che l’esaltazione del popolo e della democrazia diretta nascondeva la sfiducia e il disprezzo del popolo, e primo fra tutti quello degli attivisti. Pur di non ammettere che le scelte strategiche non si possono delegare alla democrazia, ma devono essere prese invece da una direzione nazionale di partito, hanno allestito un teatrino peggiore di quello dei partiti tradizionali. Sicché stavolta, per colpa di un gruppo dirigente senza autorità e credibilità, ha accidentalmente ragione anche quel leghista mascherato di Diego Fusaro. A Rousseau è seguito Robespierre.