(di Paola Zanca – Il Fatto Quotidiano) – Lo dice in cucina, alle spalle ha una presina natalizia, lascito dei giorni in cui la crisi era iniziata, ma Giuseppe Conte era ancora al governo e lui, se tutto fosse finito con un semplice rimpasto, era pronto a entrare al governo: “Stavolta non ce la faccio”. Alessandro Di Battista “d’ora in poi” non parlerà più “a nome del M5S”. Rispetta l’esito della votazione, ma non sarà tra quelli che si siedono al governo con Berlusconi: “Non riesco proprio a superarla”, dice, evidentemente provato dalla fine “di una storia d’amore”. “Mi faccio da parte”, annuncia e lascia aperta solo una porticina: “Se mai la mia strada dovesse di nuovo incrociarsi con quella del Movimento, vedremo…”. Però già li chiama “ex colleghi” e già ringrazia Beppe Grillo che gli ha “insegnato a prendere scelte controcorrente”. Se ne va con “grande dolore”, lo stesso che esprime un altro veterano come Max Bugani, ancor prima che il voto dica che i 30 mila contrari al governo Draghi sono stati battuti dai 44 mila che hanno seguito la linea dei leader: Beppe Grillo, Luigi Di Maio, Giuseppe Conte. Davide Casaleggio, laconico come sempre, è “contento” che la sua “democrazia digitale” abbia funzionato anche stavolta. Ma anche lui, come noto, era contrario all’abbraccio con Mr. Bce.

È una cesura irreversibile, probabilmente il vero giro di boa dei 5 Stelle, che pure in questi anni al governo hanno cambiato idee, rivisto dogmi, digerito bocconi amarissimi. E adesso sono arrivati a scegliere di entrare nel governissimo con i nemici di sempre. Ha provato, anche Di Battista, a istituire la terza via, quella “astensione” che avrebbe salvato l’anima ed evitato scossoni. Ma il quesito è rimasto secco: sì o no. È a lui che Luigi Di Maio si rivolge quando parla di “egoismi e personalismi” e della “propaganda” che è stata sconfitta. Sconfitta sì, ma certo difficilmente liquidabile, visto che ha toccato “quota 40”, mentre nella maggioranza delle votazioni tenute fin qui, la “minoranza” è sempre rimasta confinata tra il 20 e il 30 per cento.

Il nodo quindi è tutt’altro che superato. E tutti si aspettano smottamenti all’interno dei gruppi parlamentari. Perché adesso che il via libera degli iscritti è arrivato, Vito Crimi ricorda a tutti che è “vincolante”: tradotto, bisogna votare la fiducia, altrimenti – recita lo Statuto – sarà espulsione.

Quanti se ne andranno? I più cinici dicono che alla fine saranno “al massimo due o tre”. E in effetti, le prime dichiarazioni dei dissidenti più noti non sembrano andare nella direzione dell’addio. Molti, va detto, avevano già ammorbidito le loro posizioni prima che arrivasse la certificazione del notaio. Anche perché non hanno saputo resistere al richiamo di “Beppe”. Il presidente dell’Antimafia Nicola Morra, per dire, ha fatto appello per un voto “libero”, ma pure apprezzato il riferimento di Grillo a Platone (“Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l’insuccesso sicuro: voler accontentare tutti”). Barbara Lezzi resta “convintamente” all’opposizione della “accozzaglia”. Elio Lannutti non cede a “Goldman Sachs” ma accetterà “il risultato”. Poi ci sono i 13 parlamentari che hanno firmato l’appello contro il voto e ora evocano la scissione: “Non ho partecipato e non mi ritengo vincolato”, dice il senatore Mattia Crucioli. Idem Pino Cabras: “Per me è vincolante il voto di 11 milioni di persone che non volevano quei governi in cui ora ci impelaghiamo”. “Non hanno un leader”, li liquidano. Almeno per ora.