(Stefano Rossi) – C’è voluta una legge per imporre, il 10 febbraio di ogni anno, il ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo istriano.
Il CONTROESODO—
Per chi, come me, ha già una certa età, nei libri di scuola le foibe non erano menzionate, anzi, di esodo istriano se ne parlava in modo assai succinto.
E’ giusto ricordare una tragedia che ha origini politiche con una responsabilità del partito comunista che ancora grida vendetta.
Ciò che più indigna non è tanto l’abbandono di Pola quanto il modo in cui viene eseguito; in uno stillicidio di morti, nella continua insicurezza delle persone, in una ragnatela di difficoltà per i nostri e di condiscendenza per gli altri: tutto per “sdrammatizzare”, tutto per negare che esista un problema polesano“.
Così scriveva Indro Montanelli.
Brevemente, ricordo che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’Italia, Paese perdente, subì i trattati di pace di Parigi e lì decisero che dovevamo abbandonare l’IstriaPola e altri territori della Venezia Giulia.
I titini erano pronti a massacrare gli italiani che intendevano ancora rimanere “abusivamente” in quelle terre che da un giorno all’altro da italiane divennero iugoslave.
Perché evacuare Pola?” si chiedeva candidamente Togliatti il 2 febbraio sulle colonne dell’ “Unità”.
In quegli anni il pci non aveva pietà e non conobbe la parola “accoglienza” verso quei poveretti che senza colpa dovettero abbandonare di fetta tutto, dalla casa, ai soldi, al lavoro, alle terre.
Stefano Zecchi, nel suo libro “Quando ci batteva forte il cuore” raccontava che gli italiani che decisero di tornare in Italia vennero accolti come traditori del nascente comunismo iugoslavo.
Gli sventolavano le bandiere rosse inneggiando Tito, Stalin, Togliatti.
E l’immancabile frase: “Fuori i fascisti da Trieste“.
Cioè i nostri fratelli che scappavano dalla furia comunista di Tito, che aspettava solo di requisire le loro case, erano fascisti solo perché rappresentavano la prova della follia comunista.
E’ sempre la stessa storia: se non sei dei loro sei fascista.
Unità, 30 settembre 1946: “Ancora si parla di ‘profughi’altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi“.
Da notare che coloro che rimasero nelle zone divenute iugoslave conobbero sorte peggiore.
I comunisti gli tolsero il cognome, le terre, le case, i soldi, il lavoro perché non più cittadini in patria ma stranieri senza alcun diritto.
Subirono un genocidio per pulizia etnica nel più bieco silenzio perché Tito li voleva slavi non italiani.
Fin qui potrebbe bastare.
Ma quando c’è di mezzo la “fede” comunista, le cose non finiscono mai in peggio.
Arriva pure la tragedia.
I dirigenti comunisti decisero un “controesodo“.
Mentre i “rinnegati fascisti” impauriti da Tito tornarono in Italia, per pareggiare i conti, Togliatti pensò bene di spingere molti italiani ad andare in quelle zone.
Nessuno parla di questa oscura e grottesca storia.
Il vice segretario del pci, Pietro Secchia, organizzò il controesodo convincendo molti operai delle zone irredente di andare a “edificare il socialismo” nella Iugoslavia.
La retorica comunista ha molti mezzi, frasi, idiomi per convincere i suoi adepti.
E così si materializzarono le solite frasi come libertà, uguaglianza, fratellanza contro il nazionalismo, il fascismo, l’imperialismo, ecc..
Monfalconesi” vennero chiamati quei duemila circa che “dovevano” controbilanciare l’esodo di massa dei “rinnegati fascisti” che invece tornavano in patria.
Per qualche tempo vennero trattati bene, poi, dopo lo strappo tra Tito e Stalin, Togliatti e tutto il pci appoggiarono incondizionatamente il dittatore sanguinario Stalin.
E fu la fine dei monfalconesi.
Alcuni, come Riccardo Bellobarbich tornarono da quell’inferno e riuscirono pure a dire che fecero il primo sciopero, forse unico, in Iugoslavia con gli altri operai slavi che li guardavano come fossero marziani.
La resa dei conti avvenne dopo i fatti del teatro Partizan a Fiume dove gli italiani cercarono di spiegare le ragioni della loro protesta.
Unico caso in cui i comunisti protestarono per il comunismo.
Alla fine Tito, con la sua polizia OZNA,  li fece deportare nei gulag e internati.
Solo Ferdinando Marega non si fece prendere e dopo molto tempo riuscì a tornare in Italia e raccontare tutto.
Il pci abbandonò al loro tragico destino tutti i monfalconesi deportati per chiudere una storia troppo compromettente per la dottrina e i dogmi comunisti.
Quei fatti ancora oggi gridano vendetta e siamo sempre investiti con reportage, film, interviste, quando si deve ricordare l’Olocausto e lo scriviamo pure maiuscolo.
Ma se dobbiamo ricordare le foibe e l’esodo di massa dei nostri nonni, allora le cose cambiano e l’eventuale servizio giornalistico durerà pochissimi minuti privo di riferimenti storici.

Chissà perché stasera penso a te/strada fiorita della mia gioventù/come vorrei essere un albero che sa/dove nasce e dove morirà
Sergio Endrigo, istriano, 1966.