(Daniela Marras) – Il primo mese del nuovo anno inizia con un governo che va a
schiantandosi a colpi di hashtag in diretta social ed eredita da quello vecchio
l’agonia di aperture e chiusure a singhiozzo sulla base di regioni dai colori
caldini, più caldi o roventi; eredita dal vecchio anche la scomparsa dei grandi
Statisti commentata da bravi e meno bravi giornalisti, la conta giornaliera delle
vittime del virus e la conta invisibile di coloro che, non uccisi dalla pandemia,
sopravvivono pregando di non morire di fame e di debiti.
È un esercito silenzioso la cui resistenza, ormai, non fa più notizia.
È un fronte costituito da gente normale, che lavora onestamente, lontano dai
riflettori, le cui botteghe e i cui capannoni si affacciano sulle vie dei nostri
paesi di provincia, solitamente ignorati dalle cronache se non a causa di
qualche evento eccezionale. A loro vorremmo dar voce, perché le loro voci noi
le sentiamo per strada: le loro difficoltà sono quelle delle nostre piccole
comunità – sempre più spopolate e con sempre meno servizi – ma non per
questo meno operose.
Una voce unanime, quella degli esercenti “in chiaro”(coloro che lo scontrino lo
emettono, n,d.r.) degli imprenditori dal marchio sconosciuto, degli artigiani
che confezionano le nostre ringhiere, porte, cancellate e serrande … quelle
che, coraggiosamente, restano ancora sollevate. La voce di coloro che mai
vedremo scendere in piazza, che mai violeranno una norma in segno di
protesta; che nessuno intervisterà mai perché non hanno abbastanza forza
mediatica per esprimere il loro disagio.
Già arrancavano prima che scoppiasse della pandemia del secolo, ora si
trovano ad annaspare poiché, nonostante qualche goccia dei bonus erogati a
pioggia arrivi anche a loro, sono ben lungi dall’ottenere il vero ristoro: una
riforma seria del sistema di contribuzione. Tra tutte le imposte dovute dai
lavoratori del settore privato, è soprattutto una, infatti, a dover essere
riveduta perché appesantisce davvero troppo l’intero carico fiscale: quella che
impone loro di corrispondere in anticipo le tasse relative all’anno successivo.
Doveroso e più che lecito pagare puntualmente le tasse in base al reddito
dichiarato l’anno precedente, ma non c’è logica che spieghi come si possa
calcolare su base scientifica un guadagno futuro.

Ci permettiamo di scomodare, a proposito di previsioni impossibili, Il celebre
filosofo illuminista David Hume. Egli mise in discussione la possibilità di
affermare, senza ombra di dubbio, quindi scientificamente, che il sole debba
per forza sorgere tutti i giorni: umanamente ci si aspetta, per abitudine, che il
sole sorga anche l’indomani, e l’indomani ancora, ma non è scontato per la
scienza, in quanto potrebbe intervenire un cataclisma “cosmico” a impedirlo.
Lo stesso ragionamento è applicabile, anche in misura maggiore, alla questione
del versamento anticipato di acconti vari in base un’effimera previsione: chi
può conoscere con certezza l’entità delle nostre future entrate? E se gli affari
andassero peggio dell’anno precedente? E se venissimo a mancare? E se
fossimo costretti a chiudere bottega? (Ipotesi ancor più tremenda, perché
anche per cessare un’attività bisogna pagare).
Ci siamo permesse di tirare in ballo la filosofia, ma è chiaro che questo
non è un problema filosofico: per lo Stato è una questione di battere cassa con
una certa regolarità; per i comuni esercenti è, al contrario, una spada di
Damocle sul capo.
Ma, come scrive Alessandra Bommarito in “Uccisa a colpi di tasse” (Ed. Walter
Farina, 2014): – Prima o poi non ci sarà più nulla da mungere, ci saranno poche
imprese e lo Stato come farà ad onorare i suoi debiti e il dovuto ai suoi
dipendenti? Se non c’è lavoro non ci sono tasse. Se le tasse sono esose, muore
il lavoro. Ci saranno sempre meno imprenditori e lavoratori autonomi e lo
Stato non potrà più sostentare il suo apparato di dipendenti pubblici,
magistrati, vigili, polizia e così via.
Condividiamo il pensiero di Alessandra e invitiamo tutti a riflettere.

Grazie per averci ascoltato.

Giovanna, Daniela, Lourdes,
cittadine.