(di Selvaggia Lucarelli – Il Fatto Quotidiano) – La decisione della Rai di cancellare dal palinsesto l’intervista a Luca Varani, aguzzino di Lucia Annibali, “per non urtare la sensibilità delle vittime e dei telespettatori” apre una questione importante, che non si può liquidare con l’asciuttezza dell’argomento “al carnefice non va concessa alcuna intervista”. Si può, eventualmente, comprendere l’aspetto dell’inopportunità di mandare in onda l’intervista proprio in occasione della giornata dedicata alle donne che hanno subito violenza, ma questa è una questione di sensibilità (che condivido), mentre la sostanza è altrove. Ed è molto più complessa e ricca di sfumature.

La violenza sulle donne non è, come molti lasciano intendere in questi giorni, un orrore di semplice lettura. I meccanismi, i contesti, le vittime e perfino i carnefici sono diversi, raccontano (spesso) storie oscure e intricate in cui si fondono molti elementi: il retaggio culturale, l’educazione, le figure di riferimento, il contesto sociale, la psicologia dei protagonisti, il momento storico e una serie di aspetti che raccontano la storia di entrambi, della vittima e del carnefice. Se questo non contasse, la violenza sulle donne seguirebbe sempre un copione prevedibile e prestampato, e non è così.Intervistare il carnefice ha una funzione fondamentale: serve a non ridurre la figura del- l’uomo violento a uno stereotipo. All’idea del cavernicolo che chiude la donna nella stanza delle scope o di un rapporto in cui lo spettro della violenza aleggia dal primo bacio. All’idea che l’uomo che uccide, molesta, perseguita sia un prototipo che dissemina indizi, che corrisponda a un identikit e che sia facile individuarlo e scappare per tempo. Ecco perché far parlare questi uomini è importante. E non vuol dire né giustificare (ci mancherebbe), né concedere altri punti di vista, né mettere vittima e carnefice sullo stesso piano. Significa, come ha sempre detto Franca Leosini, “interpretare” una vicenda. Certo, bisogna essere rigorosi e inflessibili, non si deve concedere lo spazio per capovolgere i ruoli, per colpevolizzare la vittima, per gettare ombre, ma stabilire preventivamente che chi commette un reato seppur odioso debba tacere per sempre, è una posizione spaventosa. Perché se il male non lo racconti, non lo conosci. E se non lo conosci, non lo riconosci quando ci inciampi.

Ho raccontato molte storie di violenze e femminicidi e quello che mi ha sempre colpita è che lo schema è sempre simile, ma gli elementi che lo compongono hanno una variabilità impressionante. Penso al ricco dermatologo Matteo Cagnoni che uccise la moglie Giulia perché lei aveva un altro e voleva separarsi senza che qualcuno avesse mai sospettato un’indole così violenta. Penso a Manuel Piredda, un ragazzo di umili origini che già poco più che adolescente aveva perseguitato la fidanzata del liceo e anni dopo ha dato fuoco alla sua ex moglie Valentina. Penso all’ex militare Salvatore Parolisi, che uccise la moglie Melania con spietatezza per poter vivere la sua storia d’amore con l’amante. Penso a Jessica Notaro, vittima di un uomo feroce e di una dipendenza affettiva che racconta sempre con estrema efficacia. Penso a un uomo sadico, ma anche intelligente e abile manipolatore, ovvero Angelo Izzo, assassino e stupratore del Circeo, che scontata la sua colpa tornò a uccidere due donne. Penso alla galleria di uomini insospettabili o sospettabilissimi che hanno commesso violenze orribili sulle donne e non riesco a individuare né un identikit, né un movente valido per tutti.

Raccontare questi uomini significa non banalizzare il male, non metterlo in una casella di certezze. Significa raccontare alle donne che l’aguzzino può essere il marito mite, il padre oppressivo, l’amante altolocato, il fidanzato con la terza media, il compagno padrone, l’uomo ossessionato dal controllo, quello spietato e anaffettivo, quello per cui la donna è una proprietà, quello cresciuto in famiglie normali, quello cresciuto in contesti violenti, anche quello che agisce per vigliaccheria, incapace di intravedere vie di uscite in relazioni di dipendenza.

E se “la storia” non fosse importante, ma contasse solo “l’azione”, perfino i processi sarebbero inutili. Non esisterebbe neppure un capolavoro come A sangue freddo, perché la violenza è violenza, non va interpretata. Non bisogna indagare nelle teste e nelle vite di chi uccide, nella società, nell’ambiente, nella condizione. Certo, Lucia Annibali ha tutto il diritto di sentirsi ferita e di ritenere alcuni passaggi dell’intervista una violazione della sua intimità. Ha ragione quando dice che queste operazioni possono turbare le vittime, che bisogna fare attenzione a evitare la vittimizzazione secondaria. Bisogna però ricordare che la cultura di genere affonda le sue radici negli stereotipi. E gli stereotipi si abbattono raccontando la violenza nella sua complessità, mai semplificandola.